hidalgos

Sebastiano Venier e gli impiccati prima della battaglia di Lepanto, don Giovanni Tenorio e la cena con il Commendatore, l’hidalgo Gonzalo Pirobutirro e la Cognizione del Dolore, cosa li mette assieme ?

Nulla, apparentemente nulla, se non la natura dell’ hidalgo, con l’orgoglio, il dolore e la fascinazione che si porta appresso e lo ripiega nella sua cognizione. Fossero solo le donne, oppure il comando, oppure, ancora, l’inerpicarsi verso un cielo che non è mai troppo basso, questo sarebbe l’effetto, non la causa dell’essere ciò che si è.

Il perseguire che segue sé, è destino dell’hidalgo. A partire da quel don Quixote, primo persecutore della sua pazzia, malamente riscattata, e non ce n’era alcun bisogno, da quella fine di ravvedimento d’intelletto. Che mai per alcun motivo dovrebbe seguire l’hidalgo, perché nulla dev’essere nascosto all’orgoglio e nulla, compreso l’immolarsi alla propria idea, dev’essere posto da parte. Pazzia compresa. La fascinazione fa parte dell’hidalgo, sia essa esercitata nel comando o altrove.  E il Cervantes certo seppe, lui c’era, di Sebastiano Venier, che il giorno prima della battaglia di Lepanto, impiccò un hidalgo e fece frustare due aspiranti tali, per aver dileggiato e ferito due ufficiali veneziani. Lo fece sulla sua ammiraglia (torna la casa come luogo dell’epilogo dell’hidalgo), come capitano da mar e comandante della flotta che il giorno seguente affrontava il turco, lo fece sapendo che don Giovanni d’Austria, comandante generale designato da Filippo II, hidalgo degli hidalgos, per questo poteva metterlo a morte. Lo fece perché era giusto fosse così ed in questo, egli con l’esercizio del potere, divenne più hidalgo dello spagnolo.

Analogamente don Giovanni Tenorio non si ritrae dal confronto con colui che ha ucciso, con ciò che è oltre la vita ed esercita la fascinazione su di sé, il posso farlo a dispetto di tutto e tutti che è ancora una volta il conformarsi al destino proprio. E qui viene il ripiegamento su di sé, la melancolia di don Gonzalo a cui le donne fanno ombra, il cui piegarsi come armadillo è forza da esercitare per mantenere un destino più alto. Ciò che ha avvinto vite, la sua, quella della madre, quella del fratello morto in guerra, quella del luogo, della villa e del suo contorno dilaniante di banalità, per lui ingegnere, con l’anima altrove, è dolore. E su chi può esercitare un fascino degno, se non su di sé, sul dolore che emana la consapevolezza, sul dolore del vivere? La sua vita di hidalgo riallaccia, con il filo del dolore, le molte vite degli altrettanti hidalgos. Il dolore celato che unisce la passione al proprio destino, un filo su carne viva, da scordare con ciò che si ha a disposizione, sia esso il piacere, la battaglia, la pazzia.

La fascinazione è poca cosa se disgiunta dal sentire.

«… Ma se le ripeto che c’è la mia Pina… sì, sì… la Giuseppina… Lei la conosce, no?… ma se le ha parlato tante volte!…». Il figlio Pirobutirro ebbe l’aria di navigar nel vago: confondeva facilmente le Giovanne con le Giuseppine, e anche con le Teresine: ma più che tutto, a terrorizzarlo, era l’insalata delle Marie e Marie proclitiche, cioè le Mary, le May, le Marie Pie, le Anne Marie, le Marise, le Luise Marie e le Marie Terese, tanto più quando le riscopriva sorelle, a cinque a cinque, da doverle discriminare lì per lì nella baraonda dei rinfreschi, dopo schematiche presentazioni. «… Insomma, le dico che non importa», continuò il dottore; «lei starà seduto come un papa; davanti, magari, dove ha meno scosse… a guardare il paesaggio… ad assaporarlo in tutta la sua dolcezza… E la Pina guiderà. Non si fida della mia Pina?».

O! certo! Egli si fidava pienamente della «signorina Giuseppina», (Quell’astrazione onomàstica non gli dava modo di raccapezzarsi). Ringraziò nuovamente; calorosamente. «… Ma non è possibile…». Emise un sospiro. Era molto preoccupato. Quasi seccato. Fu molto cortese. Un senso di noia, di irritazione era nel suo sangue: un’ansia indicibile sul giro del gàstrico, dov’è il duodeno, come piombo: una figurazione di colpa, di inadempienza, nel suo contegno. Nel suo occhio oramai stanco, velato, si adunarono cose dolorose, lontane. Troppo lontane da quel discorso.

«Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato»

(Da La cognizione del dolore, Carlo Emilio Gadda)


paesaggi urbani

Avevo trovato un appartamento, vecchio naturalmente, con una grande terrazza, sostanzialmente un tetto, attorniato da case più alte, su tre lati. Il quarto si apriva su un campo da calcio di oratorio ed oltre, c’era un convento. Sullo sfondo la vista dei colli. Mi piaceva il posto, dentro un labirinto di case, ma quella sensazione di chiusura mi faceva guardare da una sola parte, come se il mondo avesse un’unica dimensione. 

Pochi giorni dopo mi accompagnarono a vedere una seconda casa, poco distante. Aveva la vista sul fiume e sul traffico della riviera. Si vedevano anche i cigni e le anatre del ponte della specola. Sotto c’era un ristorante, ma chiudeva presto, mi dissero. Per me era ancora la vecchia osteria in cui da ragazzo andavo, a bere con gli amici e a veder giocare a bocce. Tra tante superfetazioni e rimaneggiamenti della casa, questo appartamento di stanzette aveva conservato, sul retro, una terrazza, più piccola dell’altra, ma qui andava addirittura peggio: l’accerchiamento di case, era completo su quattro lati.

Per il prezzo ed il mancato accordo, le case andarono ad altri, che certamente, avranno interpretato con altri occhi, stanze e possibilità della terrazza circondata da case. Per me era un vincolo forte, difficile da vivere. L’ho pensato molto, successivamente, tanto da farmi decidere di acquistare una casa senza ascensore, ma sufficientemente alta.

Sopra al mio appartamento c’è una terrazzetta, piena delle mie piante, con lo spazio per un tavolino, due sedie. Volendo, uno può prendere il sole o guardare dai due lati aperti, che potrebbero essere tre. C’è una vista sul vicolo, che guarda verso la chiesa, oppure verso le case e il Prato. Lontano, nei varchi tra le case, si vedono i colli. Mi sono spesso chiesto cosa avrebbe significato avere un grande spazio alla vista di tutti. Per le mie abitudini naturistiche, sarebbe stato un limite non da poco, ma anche per la voglia di solitudine sarebbe stato un vincolo, un’impressione di vetrina difficile da rimuovere. Capisco allora perché mentre mi veniva magnificata la potenzialità della terrazza, non ci credevo e mi ritraevo guardando attorno. La sentivo non come una libertà, ma come una limitazione a me.

Spesso ho la stessa impressione, quando, per lavoro o curiosità, visito fiere, guardo negozi o riviste d’arredamento, e vedo mobili, lampade ed oggetti per spazi inesistenti al vero. Bagni grandi come soggiorni, camere da letto circumnavigabili, bisognose di navigatore per trovare il comodino, soggiorni enormi per divani enormi. Poi terrazze ed attici con sdraio e tavoli, pompeiane con teli svolazzanti. Luoghi che evocano più il vivere in un’isola semiabitata che quello in una città del nord.

Mi chiedo dove vivano gli architetti, i designer, i progettisti di queste cose. Quanto debba essere il ricarico per le piccole serie prodotte, e quanto i venditori, debbano prendere in giro, i clienti abbagliati dalla bellezza, per fargli dimenticare i loro 20 mq di soggiorno.

Obbligherei questi progettisti, prima di fargli firmare alcunché, a vivere in un appartamento normale, uno di quelli veri, disegnato da un loro collega che magari adesso risiede in qualche villa di campagna e dopo un anno di spazi veri farli,  misurare nelle soluzioni, nel fare i conti con i palazzoni vicini, con i metri quadri reali, per vedere poi cosa ne nasce.

Nella società della patacca, anche la fantasia viene presa per il naso.

green economy

Il rosso lamiera, da arrogante, sbiadisce senza decidere. Il giallo sporca, accontentandosi di riflessi, il blù sfuma verso l’avio e solo il grigio impavido resiste. Per lui sporco è già aggettivo identificativo, ma in realtà, attende spray misericordiosi di segno e di colore. Banali anch’essi nella loro ripetitività, Basquiat da queste parte non ha avuto eredi, solo l’inox, freddo nobile conscio, ostenta: non ha mai legato con nessuno.

La pioggia lava e il verde d’alberi, erba ed edera, rifulge. Colore un tempo difficile, il verde, ora sembra amico mentre evoca e mistifica. Non lui, ma le architetture, i passaggi d’alluminio e acciaio, i vetri sporchi, le strutture nate ruggini. Non acciaio corten, proprio ferro da fonderia, ferrazzo da rifusione e ganga, perché non è più tempo d’esili colonnine di ghisa, di pensieri da forgia. Tutto s’è seppellito nel secolo breve. Breve e ricco, Di visionari, fabbri d’anime e strumenti, note, parole, invenzioni, testi. Allora sì, fare pensieri multimediali e rappresentarli in piani scorrevoli tra loro, anche nell’intersecarsi, era complicato.

Vi do una cattiva notizia: è stato inventato tutto nei concetti fondamentali, adesso va di moda l’evoluzione del dettaglio. Qualche spirito libero s’esercita nel deserto: non farà danno. Basta lasciarlo dov’è, difficile da raggiungere anche per i curiosi. Vedete, guardatevi dentro, s’è perso l’elogio del brutto, del possente, dell’ordinato, del meccano che dalle teste trasmetteva moti oculari. La torre Eiffel è brutta, è un ammasso di ferraglia, basta finalmente dirlo, anche il colosseo è un ammasso di pietre squadrate, e San Pietro è sproporzionato per la vista e piccolo per l’ambizione di contenere le anime. Ma non sono banali- Perché elogiare il banale e prendersela solo con i monumenti ridicoli contemporanei? Prendetevela con il bello che non nasce, chiedetevi perché. Alemanno ha accettato un monumento banale? Colpa sua. Come si educa l’artista, se non si rifiuta. L’elogio del brutto è processo consapevole, militanza, fatica, ed invece anime tiepide, accettano, non dicono, si astengono, si voltano altrove. Per convenienza, mica per altro.

Possiamo continuare e dire che la caban di Le Courbusier è il nostro sogno, perché i sogni sono domestici, e nei geni sono ancora più domestici. Solo chi non ha sogni, ma solo voglie e desideri, deve rivestirli d’infinite pietre, d’infinite scopate, d’infinite finte trasgressioni. Nella furia iconoclasta della giovinezza tentammo di togliere lo champagne al genio, a Strawinsky o Picasso o Gadda o Hemingway, ma erano già morti, e per fortuna non se ne accorsero. Neppure le star intelligenti d’allora se ne accorsero, mettendo allegramente i fegati sotto alcool e chiacchere.

Basta non è tempo d’iconoclasti. Adesso è il verde che evolve e lega il pensiero, quello furbo e quello disinteressato. Ed io, che non ci penso, mi commuovo davanti ad un tiglio, al suo profumo. Lo ringrazio di nobilitare scelte di appalti a valore apparente e decrementante. 

Vi do una buona notizia:  stato inventato tutto, basta legare e perfezionare, leggere finalmente i manuali accumulati, adoperare le release esistenti, aspettare che i bambini crescano anziché buttarli via con i catini. Si può far fallire la apple, la bmw, la mondadori, la sony, il consumismo. Leggere tutto, sfruttare i sistemi operativi, andare al cinema, ascoltare musica dal vivo.

Il verde lega e nobilita, perfeziona legni, giri di vite e colle. Se si calpesta è tollerante, se ci si adagia è meglio.

E’ verde e se si guardano i conti non è neppure tanto economy, è la strada. Una strada. E tanto basta per mappare e ricostruire il mondo, così che sembri nuovo. Ma qual’è il bilancio vero  di questo verde che riempie le bocche? Su questo, come su molto altro, bisogna svoltare l’angolo dell’apparenza, puntare alla sostanza delle cose, accettarne la durata. Pensateci, green economy è accettare la durata e la funzione delle cose, siete pronti? 

p.s. el me par novo. Mi sembra nuovo. Non ci sarà mai nulla di così forte nella lingua come il dialetto e parere è un verbo nobile, anche nella negazione.

essere nel flusso

Rimuovere, allontanare o risolvere il problema?

E se il problema, in realtà, non fosse stato un problema?

Avevo bisogno di una soluzione soddisfacente, per un problema inesistente.  E, dopo l’enunciato, che le cose s’incastrassero secondo uno schema mio, dove tutto trovava il suo posto.

Realizzare il massimo dell’equilibrio e della soddisfazione, ovvero il tutto.

( E se  quell’esercizio di intelligenza applicata, fosse stato il massimo del compromesso, ovvero il motore immoto che trova un equilibrio nel comporre le forze contrastanti? )

Avere il tutto!

Questo avrebbe tranquillizzato e sopito altri problemi.

Non capivo, o meglio, non volevo ascoltarmi, eppure sapevo che la vita era un riordinare le priorità, uno scartare e non l’accumulare, incastrare, tenere, rendendo contenti tutti. Chi voleva, chi protestava, chi aspettava ed infine me. Invece bisognava imparare dal ruscello che sbriciola e getta a lato per essere libero di scorrere. In fondo è più facile soffrire che essere felici di sé. Ed era chiaro che tutto quello che facevo, muovevo, cercavo, era un divagare diretto verso la semplicità d’una affermazione: non ho bisogno di voi, né voi di me. Dobbiamo solo nuotare assieme con un pensiero d’autosufficienza e di scelta.

Il sublime egoismo di chi non s’occupa più di tenere tutto assieme, ma lascia che l’insieme lo contenga. E s’abbandona proprio quando sembra vigile e determinato. Ecco, questo era essere nel flusso. Non seguire, determinare, combinare ma essere nel flusso che s’era scelto.

disfare la storia

Quanto segue è solo una mia traccia, ovvero alcuni pensieri discutibili per riconciliarmi con la mia storia. Potevo non pubblicarla per quanto è personale, ma non credo di essere solo nel pensare così. Spesso mi viene detto quando obbietto: che bisogno ne hai, ciò che pensi è roba tua e basta, cerca di vivere, lascia perdere. Ed invece il bisogno esiste, perché le storie che ci vengono appiccicate costano una fatica enorme. Anche essere in un flusso non è gratis, bisogna far fatica per restare nella corrente ed essere se stessi e anche nel flusso sono forti i condizionamenti costanti a cui siamo tenuti. I si deve. I pro bono pacis. La soluzione più facile è essere due o tanti anziché uno. E’ possibile, si fa spesso, si interpretano parti, ma non può essere solo ad uso e consumo di non si sa chi. Forse è l’età, ma il mondo che mi raccontano non mi va più bene, perché non è il mondo che percepisco. Sono stanco del vuoto generato da problemi fasulli, non ne posso più che la mia storia, la mia unicità venga confusa, banalizzata, mandata in un tritacarne dove non c’è fatica di essere, ma solo conformità. I miei errori sono miei, ci tengo come per le fatiche. Mi chiedono di non fare, di essere immobile ed invece voglio correre, vedere, non chiudere gli occhi.

Intorno il banale prende il sopravvento, invade i desideri, la gestione della vita, altera la concezione del mio tempo, cerca di regolare la differenza. Allora se limito le pulsioni facili, vengo guardato malamente, se rivendico un individualismo sociale, non vengo inteso. E’ l’era degli ossimori. Non di quelli fasulli proposti nei talk show solo perché suonano bene, non di quelli usati perché non si trovano le parole, ma è l’ora di quelli silenti. Non occorre dire: sono una cosa e il suo contrario, e non mi contraddico, semplicemente contengo entrambe le opzioni e scelgo. Nello scegliere c’è forza, c’è purezza, almeno quella del gesto che sente i muscoli che l’accompagnano, che li individua uno per uno e non li sente staccati dal gesto. Consapevolezza. Una forma più alta di passione per combattere l’indifferenza che ci isola nel conformismo e il cinismo che inghiotte il futuro e il presente. Non è tutto eguale, non sono eguale. Per sentire l’ingiustizia devo uscire dalla storia fasulla, dall’eguaglianza senza rischio. Eguaglianza finta perché basata sul censo, sul genere, sul ruolo, sull’appartenenza. Ma io non voglio appartenere e la mia storia è mia e la posso mettere assieme solo con chi nuota come me. Posso compilare una lista aperta solo per raccogliere le idee, posso farlo perché pensare che ciò che scrivo sarà contraddetto è vitale, e che comunque è una mappa alternativa al conformarmi, alla resa. E’ un  modo per resistere, per pensare, discutere, essere. E se lo metto al plurale, è perché non mi sento solo, penso che tanti siano come me, insofferenti ed in cerca di una via per rimettersi a camminare. Assieme e senza raccontarcela troppo.

  • Siamo parziali, del passato teniamo solo ciò che ci serve per vivere.
  • Cerchiamo di assomigliare a ciò che ricordiamo di noi, ovvero facciamo in modo che sia verità.
  • Usiamo la gentilezza e la fermezza, nessuno di noi e’ solo un prodotto del caso, c’è molto di nostro in quello che siamo.
  • Usiamo tutte le resistenze contro ciò che non vogliamo perché non giusto per noi. Ovvero impariamo a dire di no.
  • Disorientiamo, se siamo noi stessi siamo imprevedibili.
  • Disfiamo la storia già scritta per noi, seguendo l’intuito e l’intelligenza. La nostra intelligenza, non quella altrui.
  • Impariamo ad apprezzare i segreti come cose preziose.
  • Non vantiamoci perché è una verità che non dura.
  • Puntiamo sulla nostra realtà, e’ l’unica cosa che abbiamo creato davvero.
  • Rispettiamo la realtà degli altri, che dimostra che non c’è un’unica verità.
  • Lasciamo che gli altri giudichino banale ciò che per noi ha significato e ribaltiamo il giudizio su di loro.
  • Facciamo parlare le cose, usiamo il significato delle parole, non le parole.
  • Abbattiamo ogni giorno, un pezzo di quello che ci fa male.
  • Impariamo a non aver paura della fatica, corriamo finché non abbiamo più fiato, fermiamoci finché il pensiero riprende e poi ricominciamo.
  • Non accontentiamoci mai e gioiamo di ciò che abbiamo avuto, che abbiamo e che avremo.
  • Ricordiamoci che appartenere a noi stessi è la fedeltà che possiamo donare.

le occasioni

Kairos. Il tempo ritorna, circolare. Nessuno è eguale, né l’occasione, né noi che la dovremmo cogliere. Ma nulla toglie tutto questo, in fondo l’occasione è un’occasione e come tale si prende, si lascia.

Forse l’unica cosa che si dovrebbe fare consapevolmente, è lasciare davvero che ci passi davanti, essere certi della sua unicità e del suo ripetersi diverso. Nulla di ineluttabile, ma ciò che si perde, si perde per sempre. 

Nella visione del relativo, ciò che si perde genera rimpianto, ma è compensato dalla speranza che il nuovo ripagherà. Non per meriti, ma per fortuna e benevolenza della vita, che comunque apre più porte di quante ne chiuda.

Se su un piatto d’argento è stata offerta un’occasione, quel piatto non ci sarà più, ma come in uno sciame di stelle cadenti per un tempo, non lungo, la possibilità di prendere una cometa per la coda ci sarà ancora. Basta essere in sintonia, almeno un poco, e l’attesa verrà intuita, trasformata, usata.

A volte, solo a volte.

p.s. come nei vecchi film, ogni riferimento a persone e cose è puramente casuale, ma come si fa a dire che ciò che pensiamo sia astratto dal mondo?