Di notte, la campagna si infila tra le case, spinge il buio negli orti, tra le ultime rose, preme sulle porte. E le pietre, i tetti si stringono gli uni agli altri, dimenticando proprietà, fastidi, incomprensioni, nel cercare un calore che rassicuri.
Un cane abbaia continuamente. Non è vicino né lontano, è lui la notte per chi veglia. Lo sa, forse, per questo continua instancabile, ferma un momento, illude e ricomincia. Eppure nelle strade illuminate non c’è nessuno. Lontano qualche auto incrocia i fari, mostrando case, alberi bruni, il verde spento dei prati e un bianco di betulle che s’ammassano sotto la collina. Non c’è nessuno, solo gli spettri delle funzioni diurne delle cose, che attendono il mattino per essere, lividi, silenti e attoniti per il chiaro improvviso, si mostrano, ma è un attimo, poi torna la notte.
Ci può essere un senso di solitudine più grande, che incita al sonno procurato, ai televisori accesi, ai computer e alle conversazioni con un altro lontano sé, ma qui le finestre si chiudono presto, come occhi senza pensiero. Domani sarà uguale, questo pesa, non il silenzio, la città vuota, la stanchezza del giorno. Domani sarà uguale. E mentre le gambe si raccolgono nel letto, la speranza di essere stanchi a sufficienza vorrebbe un termine, uno scollinare oltre il quale il giorno non si ripeta. Questa è la fatica del nuovo e l’abbraccio che comprende, tiene, capisce e si sussurra: cambierà in tempo, cambierà.
