Tutti questi oggetti, libri, cd, feticci tecnologici quando li abbandonerò torneranno ad essere ciò che sono: cose. Quel velo d’anima che li ha rivestiti nella loro scelta, nell’immaginarne un uso, nell’utilizzo e nella consuetudine che è quasi amore, si perderà definitivamente. E’ il loro destino, hanno significato solo per me. Noi viviamo sui detriti, su ciò che è stato costruito e distrutto, amato e odiato da chi ci ha preceduto. Questa enorme massa di cose ha alzato le città, si è inabissata nei mari e nella terra per sciogliersi piano in molecole asessuate di sentimento che ora girano e si ricompongono. E’ una piccola parte del ciclo della vita ben più vitale e rorido di umori. Oggetti che prima degli inceneritori impiegavano più tempo a consumarsi e passavano più identità, ora spesso sono vapore, aria, isole galleggianti nell’oceano. Ma senza vita in comune con l’uomo.
Esplorando una casa abbandonata, accanto a mobili rotti e fotografie sbocconcellate dai topi, c’era una lettera ancora in parte leggibile e scorrendola le parole hanno riacquistato senso e la carta non era più solo foglio, ma qualcuno che parlava. Ne ho ricavato una malinconia curiosa, sentendo che nel trasmettere qualcosa noi vorremmo fosse per sempre, come il nostro amore. E che ogni espressione di noi, quel pezzo impalpabile di passione, quel protendersi verso l’altro, vorremmo rientrasse nella nostra potestà. Anche nel gettare, chiudere, distruggere, non solo nell’amare e nel serbare. Pezzi di noi trasfusi nelle cose, uso e ricordo assieme.
E pur con un tempo più lungo, con qualche scia che scavalca case, generazioni, anche gli amori, gli affetti più profondi che c’hanno legato, sfumano con la distanza, in un lasciar andare che non è distacco, ma vite che si sovrappongono. Frammenti di sentimenti su cui, e con cui si vive, e finché ci siamo sono ciò che ha senso in noi e ci è più caro.