è iniziata la scuola

Da qualche giorno il traffico è aumentato, le rotatorie si saturano più in fretta. Basta metterlo in conto. Stamattina mi sono scoperto a guardare i fiori spontanei lungo l’argine, l’acquazzone di ieri li aveva lavati. Anche l’erba era brillante, alta e grassa, di quel verde giusto e irriproducibile, che non si vedeva da tempo. Un regalo per gli occhi.

Il traffico aiuta a perdersi nei pensieri. Noi guidiamo come camminiamo: automaticamente. E da quando è iniziata la scuola, come ogni anno, tutto va a rilento. Non ne capisco bene il motivo, ma ne accetto gli effetti. La mia scuola era in centro, dopo i primi anni, si andava soli. A piedi da casa. Ed era una conquista grande. I ricordi altrui annoiano, stamattina ci pensavo finché guardando il canale, le rive, l’erba. Di quegli anni mi resta molto, ma è cosa mia. Sfumature e lacche di ricordo. Ma riassumendo all’essenza, mi resterebbe il profumo di legno di cedro delle matite, l’odore buono di carta e d’ inchiostro che porto ancora con me, nelle passioni inconsulte per lo scrivere, in un certo modo e con certi mezzi. Resterebbe il buco, fatto con una gomma, in una delle ultime pagine rimaste in un quaderno, dopo aver strappato lo strappabile. Era quella maledetta parola che non veniva giusta: celo, e in quel cielo senza la i, ho versato tutte le lacrime che avevo. Resterebbe il profumo e la consistenza dei libri nuovi, che sembravano così belli e pieni di parole, giuste giuste da leggere. Ma passava prestissimo la foga d’imparare e restavano i ceffoni conseguenti.

Questo e molto d’altro resta. Intanto il traffico è sempre lento. Arriverò in ritardo anche oggi, è iniziata la scuola, capiranno.

compagno

Eravamo compagni non senza timore. Anche chi c’arrivava subito con gioia spensierata e guascona, chi incespicava sulla parola che rompeva passati familiari, chi, con naturalezza, riconosceva ch’eravamo tanti e dalla parte giusta. Poi, come ogni acquisizione d’identità collettiva, il cerchio d’uso della parola sostituiva il nome proprio. Ci si appellava compagno, compagna, riservando il nome all’interlocuzione diretta e non alla politica di gruppo. In vacanza, in osteria,  nelle scorribande d’amici, ritornavano i nomi, perché la parola compagno era la vita impegnata e seria, il terreno su cui poggiare piedi e ideali.

Compagno e compagna, si diceva con tenerezza, con forza, con rabbia. Una parola che univa e divideva perché connotava un versante del mondo. Toglierla a qualcuno era l’ostracismo, il tradimento. Nella parola c’era l’onore e la fedeltà, l’appartenenza.

Compagni era un grido d’attacco ed una quiete da chitarra nella notte. Compagno, veniva da prima, era stato usato con gloria, aveva plasmato vite. Per noi, studenti, era il segno d’una aristocrazia d’idee e di vita fuse assieme che innanzi tutto apparteneva a chi lavorava, agli operai. Usarlo nei loro confronti, oltre l’età, era una concessione, un essere ammessi a qualcosa che partiva da loro.

Compagno se va, chiude un secolo e mezzo di storia, relega un’identità al passato, la lascia a chi c’ha creduto, a chi vuole che non sia cambiato il mondo. Da tempo, questa parola, era in difficoltà, da quando caduti muri e ideologie, sembrava fosse un arcaismo, un residuo del passato. Nella fretta del nuovo, del tempo che divora se stesso, s’è gettato non solo il bimbo e l’acqua sporca, ma anche il catino. Nel convergere poi, di centro e sinistra, è difficile usarla in partito, difficile nelle manifestazioni, difficile anche in fabbrica perché gli operai erano passati alla lega.  

Eppure tutti c’abbiamo creduto, anche chi non era d’accordo, ma alla sua partenza non c’era nessuno. Era finita una stagione politica e di speranza, di questo qualcuno non se n’era accorto, e nessuno conosceva il nome di quella nuova.

E’ solo una parola, dicono, e vorrebbero sostituirla con amico, ma sarebbe demolire qualcos’altro, un sentimento che riguarda le persone, non le idee e la politica. Ne sanno qualcosa i democristiani d’un tempo, che si chiamavano amici, prima di macellarsi nei congressi e nelle correnti, e gli amici veri se li sceglievano altrove.

Meglio non avere nome e tenersi dentro ciò che si è. Ritorneremo ai signori e signore, agli uomini e donne detto enfaticamente, all’appellarsi vuoto di simboli e significati. Non ci si deve sentire per forza, qualcosa di diverso e forse neppure assieme ci si deve sentire. Oppure sarà necessaria la doppia tessera, quella ligth per la casa comune, quella hard per chi vuole cambiare davvero.

Questo dice la politica liquida: agitare bene prima dell’uso, bere e poi si metabolizza in fretta.

p.s. mi convinco che sarebbe andata comunque così, che non è stato l’ingresso dei figli della borghesia a mutare il senso della parola, e forse, neppure a stereotiparne l’uso. Che a metà degli anni ’80 già s’era consumata la fiamma in grado di mutare il mondo. Quel mondo, non questo, questo ha gli stessi problemi ed altre poche fiamme.

Ivan della Mea, interpretò in musica, quell’ultima stagione insieme ad altri, ritmando le manifestazioni e la protesta. 

 Compagno era colui con cui si divideva il cibo, la lotta, la prospettiva di futuro. Cosa posso dividere oggi, che non cambi presto con i leaders, che non ricada nel relativo che ha pervaso la politica, che non sia solo, una prospettiva di governo, ma una prospettiva di vita?

In quegli anni di cambiamento fu per me fondamentale, l’ultimo leader che seppe incarnare davvero la parola compagno: Enrico Berliguer. Di Lui conservo molto e condivido ancora moltissimo.

Le parole delle mani

Alla fine degli anni ’60, noi, figli di operai o artigiani, stavamo studiando più dei nostri padri. Senza accorgerci, c’eravamo innamorati delle mani da lavoro, delle tute da portare nei laboratori (in questa stagione, sulla pelle erano la libertà), del lavoro descritto, più che lavorato. E per aderire all’innamoramento, senza rendercene conto, degli operai di fabbrica, cercavamo l’intercalare smozzicato, le frasi casuali e brevi, le parole piegate a nuovi significati per assonanza, l’uso degli improvvisi, meravigliosi, tecnicismi .

Balestrini, ed ancor più Pasolini avevano aperto una porta da cui entrava aria fresca e vera. Basta odore di polvere, libri consumati di sottolineature, dizionari per arcaismi. Basta vedere la realtà con gli occhi del vecchio intellettuale, era importante parlare tra noi e scrivere come si parlava. Sembrava fosse la svolta dopo il realismo. Una forza che veniva dal fare ed investiva lo scrivere, le parole, con un adattarsi alla fatica, quella vera per noi che, nelle assemblee, nelle sezioni, nei gruppi, non volevamo essere intellettuali. Era la fatica operaia che sporcava e faceva sudare, ma poi star bene. E bastava lavarsi, e pensare diverso, che era quasi riposare e la sera si sarebbe discusso, parlato-ascoltato, davanti ad un bicchiere di vino, con parole e vite che sembravano antiche e nuove di zecca. Non quelle dei nostri padri che ci pareva di conoscere a memoria, ma queste che non raccontavano, sparavano frasi e fumo, s’incazzavano, alzavano la voce e magari un attimo dopo scoppiavano in una risata. Noi vedevamo operai giovani, poco più anziani di noi, eppure già con famiglia, figli. Facevano fatica ad uscire durante la settimana, doveva esserci un motivo, spesso c’erano anche le donne. Si finiva tardi il venerdì, gli altri giorni se ne andavano che noi eravamo ancora a discutere. E sarebbe durato a lungo il parlare, con la loro presenza che restava anche dopo. Sembrava che la realtà fosse nella dissoluzione delle regole imparate, nel lessico semplificato, negli inglesismi delle macchine che assumevano il sapore delle persone.  Al centro c’era il riuscire a comunicare, il sentire, oltre la forma. Volevamo l’orizzontalità tra mestieri diversi: tra chi studiava e scriveva e chi lavorava in fabbrica. Ci pareva, almeno. E se ci guardavano con sospetto, all’inizio, come si sentissero presi in giro, dovevamo essere sinceri perché altrimenti, ci avrebbero massacrati a pedate, non solo virtuali. Eravamo inermi, per capire subito la differenza bastava vedere le nostre mani, niente calli, nessun taglio da sbavature di ferro, unghie pulite. Potevano accoglierci, se si stava zitti a sufficienza, prendendoci per il culo, magari per ricordarci che i nostri padri lavoravano e noi no. Loro aristocrazia operaia, e noi, pur figli di lavoratori, già borghesi. Ma rispettavano il conoscere, la fatica sui libri. Il loro sapere era diverso, faceva nascere cose, aggiustava, mandava avanti questa baracca di paese che sarebbe cambiato, ma solo con coscienza e serietà. Essere bravi sul lavoro era un obbligo e un vanto, per passare da operaio a specializzato, bisognava fare il capolavoro. Proprio così. E la parola ci sembrava appropriata per quel sapere vero, difficile da scrivere sui libri e da far raccontare alle mani. Altro che balle, loro sapevano cosa voleva dire sfruttamento. E noi capivamo che lo sapevano davvero, e sembrava che quell’ingiustizia traslasse, investisse un poco anche noi, fino a farci sentire come bruciava sulla pelle ad ogni ingresso in fabbrica, ad ogni bolletta, ad ogni umiliazione dei capi.

Intanto tra noi, parlando di cose che facevamo finta di conoscere, si teorizzava. In realtà volevamo il linguaggio delle mani, le parole delle mani, non avendolo, partivamo dalle parole che conoscevamo, dai nomi del fare. E capirsi, era dissolvere il costrutto della frase, adattarsi alle mani, uscire dalla malcapita lezione togliattiana dove forma, regola ed ideologia si integravano. O almeno così ci pareva. Presumevamo, perché tra studio, bevute, passioni, non restava molto tempo per approfondire. Però una realtà nuova irrompeva verso l’alto. Rispettare Gramsci e l’obbligo del sapere per criticare non ci sembrava contraddittorio, come pure ripensare l’intellettuale organico. Era dirompente questo usare frasi e piani multipli, come un muoversi di mani che descrivevano, essere sul lavoro e guardarlo, dire ciò che malamente si faceva, con parole semplici, secche e poi metterci dentro i pensieri contemporanei, la ragazza, i soldi che non c’erano mai, il calcio, lo sciopero, le sigarette e di nuovo il pezzo da finire bene perché doveva passare la tolleranza, e non farsi cacciar via dai propri colleghi prima che dal caporeparto. Ero un cane che si sforzava, non avevo possibilità, sbagliavo talmente tanto che, per misericordia, mi spostarono subito in magazzino. Era un’estate di lavoro con il pensiero che sarebbe finita, però finché c’era, tanto valeva approfittarne. Altrove la scuola, la buona facoltà, faceva la differenza, ma lì dentro era un peso. Per questo, si doveva cercare di usare quello che sapevamo: il linguaggio, e mescolarlo con le lingue del lavoro.  Il dialetto l’avevamo sempre adoperato, era la lingua madre. Anche fuori, anche al bar, lo usavano tutti, a cominciare dagli intelligenti, che sapevano quando era ora di essere in sintonia con il posto. Ma noi c’eravamo inventati un essere operaisti, con la lingua, oltre la fatica dell’approfondire, oltre Tronti, per questo eravamo persuasi d’essere dentro un processo vitale di mutamento che spingeva verso il cielo restando orizzontale.

Ci sembrava, ma non era mica vero, solo gli intelligenti veri o i cinici, capivano che sarebbe passata e che altro avrebbe corrotto lingua, frasi, e soprattutto idee e modi di vivere. Sarebbe venuta la terribile consuetudine del terrorismo, i sogni si sarebbero spiaccicati contro i vetri, le pareti rigate di cemento dei palazzi, con scheggie dappertutto e linee ferrate contorte. A noi che sarebbe restato d’una stagione troppo presto conclusa? Molto e nulla, molto era l’esperienza dello sperare assieme, nulla era l’implodere degli anni, il distacco tra un fuoco d’artificio stampato sulla retina ed il sorgere del giorno. Di ogni giorno. Avevamo un lessico da rimettere in ordine, bastava rientrare nei ranghi, in due giorni, due mesi o due anni,  tutto sarebbe andato a posto.  Un gruppetto di incoscienti, sull’orlo della felicità d’essere nel mutamento, ecco chi eravamo.

Per molti non fu così. O forse per pochi.

Era di maggio, quando iniziò.

filastrocca

eravamo piccoli,

strano dirlo ora,

ma ad ogni caduta, o graffio più cocente,

tra le lacrime, e il sangue che colava

la bocca in sorriso, ripeteva:

fatto niente, fatto niente.

Con gli anni

il gioco della vita cresce

altre sono le tracce e i danni,

ma nella mente un ritornello si ripete:

fatto niente, fatto niente.

 



l’anticomunista

Era il parroco d’ una chiesa inesistente, ridotta ad un cumolo di macerie da un raid alleato che aveva polverizzato il Mantegna più bello fuori Mantova, Guariento, Padovanino e chissà quanto d’altro. Mi raccontavano da bambino, che c’erano scaglie di colore dappertutto e che gli uomini di cultura della città, raccoglievano assieme a chi appena sapeva di quegli affreschi, inseguendo la speranza di conservare e ricomporre chissà come e quando. Ne fecero decine e decine di casse di pezzi d’affresco e calcinacci, in attesa d’ un miracolo che ricomponesse quello che era definitivamente perduto. Mi raccontavano anche di chi si portava a casa un tòco del Mantegna, un pezzo di testa, una mano e chissà cosa. Tanto ormai erano solo ruinassi, rovine.

Era diventato parroco di quel disastro, con la pena di vederlo ogni giorno. Cumoli di detriti, legno, vetri a piombo e mattoni, il soffitto a carena di nave rovesciata distrutto e incendiato, i muri perimetrali implosi. Ma intorno era peggio, la guerra era finita ed aveva distrutto anche dove le case erano integre; la città faticava a ritrovare un senso comune. C’era la miseria del dopoguerra, la prova della speranza che ogni giorno se inzegnava a mettere insieme la settimana. Fedeli poveri accanto ai professionisti che avevano conservato i patrimoni, famiglie che erano solo nei registri parrocchiali, presenze punteggiate di assenze.

Mio padre era comunista e quando chiese cosa dovesse per il mio battesimo, il prete gli rispose : gninte, el xe el me mestiere. Mio padre ne fu colpito, era lo stesso motivo per cui lui, che vedeva il mondo ingiusto e irreformabibile, che aveva respirato l’ineguaglianza prima e dopo il fascismo, pensava che ci fosse un ruolo per ciascuno, che il lavoro era dignità ed andava fatto bene. Questa impressione di prete diverso si accrebbe quando mia madre riferì in casa che all’arrivo della madonna pellegrina, che passava di parrocchia in parrocchia come argine al comunismo, il prete prese con sé la madonna e la portò in chiesa e poi disse alle donne: ‘ndé via, casa, le donne poe pregare anca casa, xe note, basta cussì. E si chiuse in quel poco di chiesa che gli era rimasta. Erano solo le nove di sera.

I poveri venivano ogni giorno, dava tutto quello che aveva, le tonache erano sempre più rattoppate, la perpetua c’era a tratti, anche i cappellani duravano poco: problemi di sostentamento. Insomma anche il prete era povero nonostante fosse una parrocchia del centro. Ed era anticomunista.

Lo ascoltavo nelle prediche, parlava della minaccia atea, gli uomini di azione cattolica distribuivano giornaletti ferocemente anticomunisti. Io leggevo il Pioniere, anziché il Vittorioso e non mi vergognavo per niente. Non provava a cambiarmi, si accontentava di questo ragazzetto che aveva i calzoni troppo corti d’estate e che combatteva battaglie con le pigne nella chiesa, dentro al cantiere. Capivo che tra lui e mio padre, avrei scelto mio padre, ma m’ incuriosiva questo anticomunismo del prete povero. Mio padre non parlava e quando proprio doveva, diceva che era un bon omo. Era il massimo, includeva la stima ed il rispetto. Avevano solo idee diverse, ma il prete non si approfittava del ruolo che gli dava la società. Capivo che c’erano due società che si compenetravano, che il comunista e l’anticomunista si potevano rispettare. Che il prete faceva il suo mestiere e che in questo aveva incluso l’anticomunismo, ma contava quello che faceva più dei pochi dubbi che mi creava.

Ero andato via da poco quando un giorno, mi dissero che anche lui se n’era andato. La chiesa era stata ricostruita, gli affreschi erano definitivamente perduti (adesso c’è una ricostruzione che fa capire cosa si sia davvero perso), il delitto perpetrato non aveva possibilità di essere ricomposto, ma pur vuota, la chiesa era davvero bella e la gente della parrocchia aveva ritrovato un benessere da città. Il suo mestiere di prete lo portava altrove, aveva chiesto di andare a passare i suoi ultimi anni, non in una parrocchia più ricca, ma al Cottolengo per dare una mano.

Me lo sono portato dietro così, anche negli anni furiosi, anche nell’ateismo ostentato, come una traccia buona nel mondo, come un anticomunista senza tornaconto, come la dimostrazione che l’idea non toccava l’uomo e non bastava appartenere ad una parte, bisognava essere uomini. Na degna persona, diceva mio padre. Ed ho imparato più sensibilità per gli altri da quell’anticomunista che nei periodi di occupazione dell’università. Da lui e da altri distribuiti su fedi molto pratiche, ho capito senza smettere di appartenere, come il separarsi dalla politica per riunirsi nell’uomo era il modo per riconoscere davvero gli altri. Testarli dove il bisogno annullava la definizione di parte e restava solo l’appartenenza al genere: quello umano.

l’estate straordinaria

Quell’estate fu piena di eventi straordinari. Arrivò una bibita nuova che era quasi un’aranciata, solo che si faceva in casa, con le polverette idrolitina. Col doppio della dose sembrava san pellegrino. Se non scoppiava il bottiglione, frizzava come le caramelle, nuove, nuove ed altrettanto pizzicose. Un motorino fu completamente smontato e rimontato, non funzionava prima e non funzionò poi, in compenso uno dei meccanici se ne innamorò talmente tanto che comprò le quote degli altri per procedere in proprio.  Dell’amore sbocciato, ne fece poi una discreta azienda metalmeccanica. Mangiavamo panini di salame e olio motore, l’acqua e la sabbia non bastavano a togliere il nero dalle unghie e dai tagli. Ma la morchia non è male se si ha fame di salame.  Con i soldi ricavati s’acquistò un giradischi portatile, usato, a valigetta, con valvole EL82 , 2.5 watt, rigorosamente mono, però la testina leggeva anche i dischi stereo. Comprammo anche un disco di un complesso inglese, assolutamente nuovo. Fu un formidabile strumento di attrazione sessuale. Solo attrazione. I vestiti erano svincolati dai calzoni corti, polo e jeans, argentine tagliate per i coraggiosi. Lo scollo a barchetta, un sublime oggetto del desiderio, imperava tra le ragazze. E chinati, chinati perdio, che vediamo. Pensieri a fior di labbra, tifo da stadio trattenuto a malapena. Le sfrontate avevano abbandonato la sottoveste, qualcuna aveva reggiseno a balconcino. E i desideri erano rigorosamente di genere, i maschi da un lato che ostentavano avventure sognate, le donne -che già a quel tempo parlavano tantissimo tra loro, di cosa parlavano poi?- dall’altro. L’incrocio dei desideri, mai sufficientemente indagato, si attestava su grovigli di romanticismo, voglia di potenza, paura d’impotenza, concetto  poco chiaro del limite – come si fa, sei sicuro? e se non vuole?- necessità impellenti. Quest’estate, perdio, non deve finire mai, è da correre a perdifiato. Ma dove? e perchè, con chi? Non importa, basta correre. Le notti. Nasceva il gusto delle notti. L’eroismo della notte, lo sforare ogni limite di sonno, con il vino allungato con la gazosa, la bocca impastata dalle sigarette al mentolo, i tavolini notturni della città arroventata, la coca cola, il mottarello. Parlare di tutto, di niente, nelle notte trascinate oltre il confine della mezzanotte, mezz’ora a sera, a settimana, fino all’una, le due, le tre. Conquiste tangibili, definitive. Stremati dal sonno il giorno dopo in piscina, ebbri di sole, di caffelatte, di cloro, di costumi rossi, blu, rosa confetto. Le giornate lunghissime, pigre, le letture, il primo playboy, il secondo. Si vede tutto. Quasi, non il pelo. E’ incredibile, ma sono davvero così le americane? La tenda, le scatolette, il fuoco sulla schiena: stanotte non si dorme, non potevo girarmi, si vedeva, eccome si vedeva. E lei lo sapeva. 

Di quell’estate ho tutto e niente, un insieme di righe scritte con la Pelikan, con lo stesso corsivo di adesso, la lettura furiosa di Pavese. Ma perchè non c’era il Po da noi, perché era a Rovigo, che cazzo serviva il Po a Rovigo, e perchè di Torino ci dicevano ch’era un postaccio dove al massimo si emigrava? L’estate è un fuoco d’artificio, vammi a prendere 5 nazionali, e non fumare che ti fa male, e perchè tu fumi, perchè sono grande e tu sei un ragazzo, un bocia, non lo sai che io andavo nei casini? Non è vero. Va bene entravo solo, non mi lasciavano consumare, solo vedere. Però vado a puttane. No, a me le puttane non interessano, non mi piace, però racconta, dai, racconta.

 

saveur bébé

La bottiglia dell’ Orangine è meno slanciata di quella più alta, femminile, dai fianchi sinuosi, dell’aranciata San Pellegrino. Però consumata all’ombra di una cattedrale, con gli occhi di qualche bambino disfatto dal caldo e dai genitori che ti guarda, ha il potere di evocare l’infanzia. La mia infanzia anagrafica è lontana, era un tempo in cui molto veniva vissuto per antagonismi, ma quali erano i miei sapori bambini? Facendo una selezione sui sapori desiderati, su cui si poteva piangere e far capricci (e comunque esterni alle preparazioni di casa) ne è venuta una mappa:

L’aranciata San Pellegrino fresca e consumata su tavolini tondi di alluminio, era l’estate, la scelta dei genitori e una sosta per quei bimbi sudati e riottosi. L’ho amata come una carezza della mamma.

Il chinotto Recoaro, dalla bottiglia scura e agile, era l’alternativa salutista alla Coca Cola (gli americani erano così bambinoni e trasgressivi da giustificare qualche dubbio nei genitori) e un peccato di gola temperato dall’amarognolo. Che, come si sa, fa bene anche allo spirito. E’ un gusto che resta ed ancora lo cerco anche se, adolescente lavoratore, mi causò qualche problema intestinale da eccessi, ma questa è un’altra storia.

La principessa era la Cedrata Tassoni, maiuscola sin dal nome, non si associava a nulla, viveva in sè e si lasciava bene con condiscendenza. La bevo anche adesso, a volte per vedere la faccia del barista.

La birra in modica quantità la bevevano anche i bambini, soprattutto se c’era un nonno che te la faceva assaggiare. C’è un sapore che d’estate amo ancora ed è  quello della birra alla spina corretta con un poco d’anice. Anice e acqua in questa parte d’Italia si sono sempre consumati assieme. Addirittura al Pedrocchi era un diritto degli studenti, servito gratis, assieme al quotidiano. Ma nella birreria Pedavena, sul tavolino di marmo, era un sapore da uomini. E cosa vuol di più un bimbo, se non diventare uomo prima del tempo?

La spuma nera, chiara, arancio, rossa, puntava sui colori che dovevano  farla essere altro. Era già un passo in più rispetto alla gazosa, ma lo sapevamo tutti che era l’alternativa povera alle bevande blasonate. E che non ci raccontassero storie…

Le acque frizzanti venivano preparate in casa, la San Pellegrino era riservata ai pasti al ristorante. Qui c’erano due scuole di gusto e pensiero: l’Alberani e l’Idrolitina del cav Gazzoni. A me piaceva la prima, sembrava frizzare di più e a casa d’amichetti le discussioni, bevendo, fervevano, spesso sfiorando la rissa.

La carne in scatola: Simmenthal e Montana, trascuro i beef, pastoni americani, che non hanno mai sfondato sul serio. Con la prima riuscivano perfino a farmi mangiare l’insalata, mi piaceva la gelatina e il salato anche se di carne nelle scatolette, ce n’era poca.

Il cremino Ferrero. Eh sì cari miei, prima delle tavolette e dei Kinder, la Ferrero faceva cioccolata con chissachè dentro, ma si sentivano le nocciole ed era sapore cioccolatoso da pane fresco. Merce da fornaio, per fami pomeridiane da strada.

Il budino Elah, il principe dei dolci estivi, freddo come un assassino, a cucchiaiate larghe e tonde, direttamente dalla zuppiera o dalle scodelle. M’hanno sembre beccato quando facevo le incursioni prima di cena, chissà perchè. La nonna ci faceva anche una zuppa all’inglese con l’alchermes Bertolini. Anche quella servita fredda e un po’ preclusa alle grande quantità visto che era alcolica, ma si rubava più facilmente essendo pareggiabile, eccome si rubava…

La stessa Elah faceva una caramella mou da appiccicare a palato e denti. Credo fosse finanziata dai dentisti poveri, per la loro gioia e per le nostre pene domenicali e notturne. Chè le carie sono di  loro natura malvagie e scelgono i momenti più devastanti per manifestare la presenza, ma questo non si impara. Neppure con l’esperienza

La Coppa del Nonno Motta, era il massimo dei premi serali, una passeggiatina da piccolo lord,  l’apparente star buoni, l’arrivare composti tenendo a freno le gambe. E si gustava seduti. Però… pensandoci la classe indotta mica era una fantasia.

Gli altri gelati e cioè il pinguino, la cassata, la pallina di cioccolato e vaniglia/crema erano confezionati dal gelataio. Così come l’altro principe dell’estate, ovvero il ghiacciolo che si mangiava e succhiava fino all’ultimo residuo di ghiaccio, utile da buttare giù per la schiena all’amichetto vicino. Crescendo si sarebbero scelti altri percorsi per il ghiaccio.

Fece allora, la sua apparizione un gelato che non era, né Motta (buonissimo il fiordilatte), né Alemagna (una coppa discreta), era il Camillino di una certa Algida. Si diceva che, pur essendo buono, non le avrebbe permesso di fare molta strada. Poi è andata come è andata…

Una citazione speciale la meritano i Lazzaroni, non perchè fossero biscotti estivi, anzi d’estate i wafer erano a rischio scioglimento, però per forma, fattura, crema e contenitore (scatole di latta, con il coperchio col vetro) erano l’eccellenza biscottosa. Li andavo a prendere dalla fornaia e a far mettere in conto, a numero, non a etti. Sono ancora il mito della mia infanzia.  Ma al mattino, col caffelatte, imperversavano i petit beurre, le marie, gli oswego, tutto in modica quantità in modo da non far cessare il desiderio di peccare col barattolo.

Anche la Saiwa si difendeva bene e devo dire che i wafer passati in frigo erano da sballo con il caffelatte freddo. Purtroppo anche questi pochi rispetto al desiderio. In compenso, adesso, nel mio frigo ci sono sempre.

Il tamarindo della Carlo Erba, da diluire con l’acqua fredda. Era buono, faceva bene non so cosa, si beveva anche con l’acqua frizzante. A litri. Per rubare qualcosa alla mamma l’ho bevuto anche puro dalla bottiglietta, credo sia per questo che il sapore lo conservo tra le cose importanti delle vacanze al mare.

I fruttini Zuegg, compresa la cotognata, rivaleggiavano nel pomeriggio con il burro e zucchero nel panino fresco, ma avere un pane in una mano e un fruttino nell’altra da sbocconcellare alternativamente, sembrava da adulti. Anche perchè l’ultimo boccone doveva essere dolce e la funzione educativa del farsi bastare il fruttino, passava nell’imprinting.

Le sardine in scatola Arrigoni, erano il pasto della fretta (mia mamma lavorava) , ma quanto mi piacevano, anche per il loro rituale d’apertura della scatola con una chiavetta che tendeva a rompere la linguetta da avvolgere  e a rendere difficoltosa la cena. Volevo far io e lo scappellotto era d’obbligo quando per mangiare si doveva prendere la pinza.

Infine, ma solo perchè sono stanco di sapori sovrapposti, chiudo con il principe dei panini estivi: la rosetta con tonno e cipolline, confezionata al momento dal casoin, il salumiere, che veniva osservato e spronato ad aggiungere (zontare) mentre dalla scatola di tonno da 3 kg, estraeva i pezzetti. Le bave alla bocca fino al primo morso e alla prima macchia sulla maglietta. Certe patacche da sopportare con cristiana indifferenza,  ceffoni educativi  compresi.

Temo continuerà, altro urge e poi, come diceva un carosello anni ’60, con la carne Montana che stringo vengon tutti a mangiare con Gringo.

raccontare

Potrei raccontarti della morbidezza di luglio, dei vestitini di cotone e delle scollature a balconcino, potrei dirti dei reggiseni lenti e dei corpi teneramente dondolanti. Potrei parlarti delle cannottiere a costine, dei calzoni senza tasche, a zampa d’elefante. Ti intratterrei sulle espadillas di corda, sulle superga bianche, sui costumi coi laccetti, sulle argentine sfilacciate, zuppe di sudori e voglie. E racconterei di motorini con le teste ribassate, di unghie nere di morchie di catena, di zoccoli prima del dottor scholl, di sabbia abrasiva tra le dita in sandali mendaci. Vietnamiti dicevano e non era vero, ma Giap vinceva gli americani che ancora non capivano. Anche gli ebrei in sei giorni vincevano le guerre  e la pace non sarebbe venuta in 40 anni.  Questo l’avremmo capito tutti molto dopo. In spiaggia arrivava l’eco di Praga, chi aveva visto ponte Carlo parlava del teatro delle ombre, delle birrerie dove si scambiavano desideri, libertà raccontate, simpatie, amoretti tra birra non pastorizzata e ristoranti con il vecchio nome francese del servire il cibo: buffet.  La piscina teneva banco in città, con il cloro a larghe mani per disinfettare incontinenze allegre, tornavamo con gli occhi rossi di lupi in bicicletta, ma prima c’era l’odore dell’acqua di canale tra naso e bocca. Tuffo in fiume e poi in piscina, per un coraggio che quel bikini a pois rossi non vedeva mai. Bastava socchiudere gli occhi, lasciarsi abbronzare mentre un disco seguiva l’altro. Sempre gli stessi sino a diventare rumore di fondo. Sabati al mare su schiuma d’acqua senza goletta verde, l’attesa del fresco della sera, il buio, le paure di crescere e di restare al palo.

la scossa

La scossa venne con uno sciacquio d’acqua, poi sabbia a correre sul muro, e il tempo rallentava con il pavimento che non stava fermo. Mia madre andò nel posto più pericoloso della casa, e comincio ad urlare i bambini, i bambini, abbassando la voce che diventava lamento. La guancia le fece male per giorni, ma non c’era altro modo per smuoverla e neppure vide la mia mano. 

Quella sera mi venne a mente mio padre che  tranquillo diceva, chissà che venga il terremoto. Intendeva per abbattere le superbie, ma non era così. Anche lui lo sapeva. A questo pensavo mentre scendevo gradini instabili e spingevo tutti. Era appena iniziata la notte e sarebbe stata lunga. Mesi e mesi fino ad oltre l’inverno, con l’impotenza di far finta di niente, aspettando finisse.

baccalà mantecato

Con l’estate il baccalà veniva sostituito dalle verdure, dai formaggi, dal tonno e dalle sardine. La polenta, rigorosamente bianca e calda, mal si conciliava con le case prive di fresco. Però c’era un baccalà che si poteva consumare d’estate, una cosa strana da fare ed a cui partecipavo ammaliato dalla nonna. Ricordate Tom Sawyer quando deve dipingere la staccionata, ecco tanto quanto ero sfaticato per qualsiasi incombenza, così mi lasciavo abbindolare dal lavoro muscolare che serviva per mantecare il baccalà. Le modalità di preparazione preliminari erano le solite del baccalà in bianco: ammollo in acqua fredda, cambiata per un paio di giorni, battitura, disossatura (del baccalà le spine erano considerate ossi), divisione in pezzi medi e poi si lessava con appena un poco di sedano, sale ed un idea di cipolla. Ci si poteva fermare a questo punto, condendo con olio, prezzemolo e consumando freddo. Invece la nonna diceva ” fazemo el bacalà mantecato “ e cominciava la cerimonia: i pezzi di baccalà erano messi tra due piatti, combacianti, con un filo d’olio e si cominciava a sbattere agitandoli con due mani, come con le maracas. Tutto semplice: 5 minuti di sbattitura, filo d’olio e poi di nuovo, così per oltre un’ora. Finchè stremati noi e le fibre del baccalà si compiva il miracolo della trasformazione in un’ amalgama candida, una crema che poi sarebbe stata consumata con polenta abbrustolita.

Adesso lo fanno con il frullatore, ci mettono il latte, lo spalmano sui crostini e i ragazzi che se lo vedono servire assieme al vino bianco freddo o lo spritz, come appetizer, neppure sanno che pesce era.

Merluzzo dei mari del nord, essiccato al vento artico, ecco cos’era.

Ma forse fa parte del tempo sentirsi un po’ essiccati, perchè i liquidi se ne sono andati e non si capisce più chi era il pesce.