sogno anarchico

Sogno la violenza del silenzio, della riprovazione, della presenza muta che tolga il sonno al potere cieco.

Sogno la consapevolezza che porta l’amore altrove, lo schierarsi senza reticenza e senza passaporto, l’esserci perché non si tollera più la distruzione del presente e del futuro.

Sogno la forza anarchica della risata, che confina nella solitudine del ridicolo i potenti.

Sogno la fuga dal servilismo, l’ostentazione muta del diritto violato.

Non meritano le nostre canzoni, i nostri slogan, gli danno forza, e allora silenzio, rifiuto di collaborare, non violenza. Ogni giorno finche’ non cambia.

P.s. Metto la locomotiva di Guccini speriamo che Sacconi non si preoccupi.


acquisterò dei btp: ovvero parole in libertà

Consideri attentamente, quanta parte dei suoi fallimenti è in realtà voluta?  E quanto, lei ha agito per fallire?”

All’aria c’è lo spread con i Bund tedeschi, in ufficio c’è lo spread, a casa lo spread emerge da tv, computer, radio. Sembra che questo annulli tutto, non ho più idea di cosa accade nel mondo, anche l’alluvione in Toscana e Liguria sembra una notizia marginale. Ossia, conosco abbastanza di ciò che accade, ma come molti argomenti in questi giorni, dura poco nell’attenzione. Siamo soverchiati dalle notizie sull’economia, tanto che anche Berlusconi e la sua incapacità di gestire la crisi, passa in second’ordine. Come nel passaparola durante le situazioni ingovernabili, sembra esistano scorciatoie, ci si affida a Napolitano, si aspetta un segnale. In fondo questo è sempre stato il sogno dei cittadini: che gli risolvessero i problemi, visto che i politici vengono pagati per quello, e che li lasciassero in pace. Ma le scorciatoie non esistono, esistono i problemi, la loro genesi ed evoluzione, le soluzioni. Sul terzo punto si accentrano le attenzioni, gli altri vengono derubricati per tempi migliori, adesso, si dice e si pensa, non c’è tempo per riflettere e capire, bisogna agire. Questo fa percorrere vie sommarie, viene annunciato che comunque le soluzioni faranno male, arriveranno bastonate. Dovrei essere tranquillo, contento? Comunque, pagheranno molto i soliti, i tartassati dalla vita e dalle opportunità. Gli altri si lamenteranno molto, ma una parte dell’utile vitale (perché c’è un vitale che non dipende dalla sussistenza, ma dal bisogno e questo è diverso per tutti. I ricchi hanno più bisogni! O almeno così gli sembra…) sarà stato, nel frattempo, messo al sicuro. Ma io vorrei rifiutare i luoghi comuni, il fatto che usino parole d’altri, terribili tempi, le lacrime e il sangue dei bombardamenti su Londra. Non voglio, in aggiunta, alle difficoltà, la tirannia, la distrazione dalla realtà, che è ben più complessa dell’andamento della borsa. Capisco che mi vogliono anestetizzare con ciò che non posso risolvere, e i problemi di più basso livello vengono cancellati e sono questi che mi frullano per il capo e mi disturbano, perché oltre al denaro mi viene tolta la possibilità di vivere la mia vita. La vita comprende quella degli altri, interessarsi di sé e del mondo, provare emozioni. Ecco, mi stanno togliendo le emozioni. Dopo la solidarietà sparirà la capacità di esserci, di com patire. Mi disturba il fatto che Berlusconi lo mandi a casa un tycoon della finanza che non è migliore di lui, mi disturba che non siano i cittadini a farlo, mi disturba che chi lo vota non abbia capito che la sua guida dell’Italia è inadeguata, e non solo adesso che c’è tempesta, ma anche prima quando sembrava vivessimo nel migliore dei mondi possibili. Con le emozioni, mi toglieranno la mia possibilità di felicità. Eh, sì, perché se sento, se non sono anestetizzato, accanto al malessere esiste la felicità, magari per poco, ma esiste.

Una domanda secca: quanto siamo felici? e perché non lo siamo se è così? Ecco, torna l’idea che il fallimento non abbia solo protagonisti esterni. La felicità non è una categoria della politica, inopinatamente la costituzione americana l’ha inserita nella carta costituzionale, ma parlava di un’altra cosa. Parlava della felicità dei padri fondatori, della solida felicità liberale e borghese, fatta di abitudini, di appartenenza, di vite realizzate e vissute in stanze con le pareti foderate di quercia, parlava di religiosità forte, di domande con risposta, di certezze, di ruoli definiti, di principi intoccabili. Non parlava del casino in cui siamo adesso, della globalizzazione che muove posti di lavoro da una parte all’altra del mondo, di merci che durano poco, ma costano altrettanto poco e che si mangiano il pianeta invadendo le case. Non parlava della felicità attuale, del mondo in cui ci può essere libertà sessuale e persecuzione per il sesso, di sette miliardi di persone, degli schiavi veri od occulti, dello sfruttamento dei principi democratici per conculcare gli altri esseri umani, dei diritti individuali scritti e inapplicati. La felicità in questo mondo, è solo un fatto privato, non un diritto, avrà, quando capita, una dimensione domestica, si confronterà con il quotidiano. Ma pur nella sua dimensione privata ha bisogno di individui consapevoli del proprio destino, di persone in grado di sentire. La crisi mi toglie il diritto individuale alla felicità, perché derubrica tutta la mia scala di valori, mi conduce verso la paura. Mi chiedo come essere felice al tempo dello spread, e capisco che ho solo la strada dell’analisi e della critica, che solo attraverso la consapevolezza mi libero e posso governarmi. Se non sono governato a livello nazionale, almeno posso puntare sul governo di me, delle cose che sono importanti e rifiutare la dittatura della disinformazione su ciò che accade davvero. 

Acquisterò dei btp, quel poco che posso, perché penso che se gli italiani si comprassero il debito nazionale già ci sarebbe un passo avanti, dimostrerebbero fiducia su se stessi, ed eviterebbero di farsi togliere soldi a fondo perduto, conserverebbero il patrimonio di tutti, ora in gran parte di proprietà straniera attraverso il debito. Uno stato proprietà dei suoi abitanti, mi pare così rivoluzionario in questi tempi in cui è la finanza a possedere il mondo che forse  ricomincerei a pensare a quello che mi accade attorno, finalmente libero dallo spread.

gl’imbrogli

Il 10 ottobre, Andrea Zanzotto, ha compiuto novant’anni. Qualche volta ha corso per il Nobel, di sicuro è un grande poeta, un veneto perché scrive nella lingua di Soligo, un Italiano. Prima di tutto un Italiano. Cosa significhi essere Italiano oggi, non è ben chiaro. Io ho un’opinione, ovvero che sia appartenere a qualcosa che rende liberi, fa crescere e sentire che si è in un progetto più grande di quello personale, fa rispettare regole e compiere sacrifici, in cambio restituisce la dignità di una cultura, una lingua, molti diritti eguali, un luogo in cui tornare, un passato da ricordare e un futuro tutto da creare. Parto dal futuro, perché Zanzotto quando parla dei disastri compiuti dalla crescita economica nel territorio della Marca gioiosa e del Veneto, non evoca un passato aulico in cui si era poveri, ma felici. No, parla dell’infelicità del passato e di quella attuale che non può essere compensata da un benessere/malessere, ma anche di quella del futuro che è priva della possibilità del bello e dell’utile. Si è passati da una infelicità ad un’altra inseguiti dalla paura di non avere e quindi di non essere. Questo novantenne è offeso, come molti giovani precari e credo appartenga più a loro che alla schiera di intellettuali conniventi, giovani e vecchi, che sostano nelle anticamere del potere. Si può obbiettare che è un vecchio vizio degli intellettuali colpire la miseria dei tempi, scrivendo nelle case calde, contando su prebende e privilegi che certo un operaio non ha. Non è il caso di Zanzotto, scrive in veneto, potrebbe star tranquillo, essere chiamato a benedire qualche inaugurazione e invece rispetta ciò per cui ha vissuto, la Resistenza, il Paese. Insomma la sua vita, che quest’uomo riconosce e che negherebbe se non dicesse quello che ha sempre detto. Anche quando si era poveri. In Russia si dice che i poeti sono terribili perché vedono oltre la realtà, ne colgono il futuro e quindi lo predicono. E questo futuro esige che l’uomo, inteso come costruttore di un progetto di cui si conoscono fini e rischi, lo prenda in mano.  

Per molto tempo, anche ora, sono stato tra quelli che hanno favorito la crescita economica. Ovvero ho aiutato imprese ad insediarsi, ho cercato di far in modo nascessero posti di lavoro stabili e alla luce del sole, ho pensato naturale che lo sviluppo fosse possibile con l’uomo, non contro di esso. L’uomo ha sempre trasformato il mondo in cui è stato, ha divorato specie, eliminato montagne, piegato (così gli pareva) la natura a sé. E’ necessario ora trovare la compatibilità tra questa pervasività/trasformazione e la capacità di equilibrio/rigenerazione. Già oggi un centinaio di giorni prima della fine dell’anno abbiamo già consumato le risorse del pianeta dell’intero anno. E questo accade e peggiora ogni anno. Il tema è tutto qui: come arrivare ad un bilancio che segni un pareggio e non un deficit da consegnare al futuro. Non sono un apocalittico, ma non ho neppure così tanta fiducia che la scienza risolverà tutto, e tantomeno la politica. Entrambe rispondono al principio di profitto prima che all’interesse comune, e il principio di profitto comporta che la somma di ciò che costa sia inferiore al prezzo a cui si vende. Tutto questo agisce su ciò che apparentemente non ha costo, anche Marx lo considerava tale, ma almeno allora, un umanesimo nei fini c’era. Quindi decrescita felice. Credo che questo sia il messaggio di Zanzotto, unito ad un senso civile talmente alto da far capire che il bene comune comincia in casa, nel quotidiano, nei pensieri, nel vedere davvero lo sfacelo in cui siamo immersi, nel provare speranza e perseguirla, nel dire basta: fermiamoci, pensiamo.

Questo è un territorio bellissimo, il tempo cancellerà le ferite, ma è il passaggio, questa stagione ad essere cruciale. Non riesco a trovare volontà di cambiamento, priorità che dicano che capire, studiare, prima di fare, è essenziale. Esistono gli strumenti: le valutazioni di impatto ambientale, le fattibilità, i piani industriali. Basta capire cosa si vuole raggiungere, qual’è la priorità. Consapevolmente rallentare, non perché ce lo impongono gli altri che stanno consumando più di noi, ma perché questa è la scelta consapevole. Oggi la priorità è il lavoro. Ma quale, quello precario che divora persone e territorio, oppure altro, e che sia stabile, che permetta alle persone di vivere, non solo di comprare cose. Negli strumenti che ho citato, la legge è il tetto con cui bisogna trovare la compatibilità, ebbene, questo non basta più perché ogni volta che si ragiona nel particulare, il generale subisce un’ulteriore peggioramento. E noi viviamo nel generale, non solo nel particulare. Da anni vengono proposti modelli e realizzazioni compatibili, anzi a impatto decrementante, io stesso lo faccio. Non si fanno perché costano. Ecco, bisogna sfatare la fanfaluca che sia possibile mantenere inalterate le componenti economiche ed avere miglioramenti determinanti, ma assumere un costo chiaro non dovrebbe essere un problema, proprio perché comunque adesso c’è comunque e lo si assume in forma surrettizia, attraverso tutte le altre componenti di costo sociale. Una proposta potrebbe essere di detassare gli investimenti che vanno in direzione di un miglioramento ambientale, che fanno immobili energeticamente attivi, che non alterano il ciclo delle acque e dell’aria, che accettano di sottoporsi a protocolli di salvaguardia ambientale commisurati al luogo in cui si insediano perché le compatibilità sonodiverse da luogo a luogo, e così via. Molto meglio che finanziare i pannelli solari nei campi coltivabili e soprattutto meglio che dire: crescete, poi qualcuno provvederà. Perché non provvederà nessuno, se non si provvede ora.

L’Italia, non la padania, è il settimo paese industriale al mondo e se riconquistasse un ruolo più alto nelle potenze dell’intelletto, della cultura, inizierebbe una considerazione diversa per questo Paese. Non penso solo al banale ritornello dell’investire nella ricerca, senza dire dove e perché vanno i soldi, ma del progetto di avere premi Nobel, di essere un paese che importa intelligenza e non la cede ad altri, di creare un modello di pensare la crescita partendo da ciò che si ha. Ma noi abbiamo un ministro del bilancio che dice che la cultura non fa pil, dove volete che possiamo andare. Il grande imbroglio della crescita è questo: far pensare che questa sia altrove da dov’è , non mostrare i luoghi in cui avviene, occultare il bilancio vero per ciò che si fa, dicendo cosa si dovrebbe fare. E questo purtroppo non è solo dentro le fabbriche, ma anche nel mondo del sapere, nella sua creazione e trasmissione, della criticità di esso. Non ce l’ho con la scuola e tantomeno con gli insegnanti, senza di loro questo mondo non si cambia, non si vede. Mostrate il mondo, fatelo vedere ai ragazzi, ditegli che si può cambiare. Di questo parlo e di questo mi parla Zanzotto.

la tronfia scienza

Ci deve essere sempre un difensore dell’ortodossia. Un inquisitore, un crociato del paradigma, colui che difende ciò che è, non ciò che sarà, e anzi cerca di impedirlo perché non rientra negli schemi e quindi è potenzialmente pericoloso. Si può codificare tutto, anche la trasgressione, e ricondurla all’interno degli schemi. Si insegna la trasgressione, quella possibile, naturalmente, e quella possibile è quella che non tocca gli equilibri.

Dell’eccessiva importanza del sapere codificato, della tronfia celebrazione che esso fa di sé, ben attento a conservare i privilegi per pochi e il monopolio del sapere da trasmettere, ben sanno i giovani ricercatori, i talenti, i lavoratori della ricerca, anche quelli che talenti non saranno mai, ma semplicemente hanno fame e per questo sono più svegli. Di tutto questo non possiamo fare a meno, però quello che accompagna questo mondo si potrebbe rimettere in competizione. Di qualche giorno fa le dimissioni di Guido Pescosolido per l’assegnazione del premio Acqui a De Mattei, già vicepresidente del Cnr e antidarwiniano. Una tempesta in un periferico bicchier di vino, si potrebbe pensare, ma in realtà uno dei tanti contrasti tra modi di vedere la realtà. Se condivido il gesto di Pescosolido, contro una interpretazione confessionale della storia, non riesco a non pensare che tutto questo in realtà non cambia un sistema che coopta e include. Una casta si dice adesso, e come tutte le caste bisognosa di conservare ruolo e potere.

Il ruolo del sapere e della scienza nel mondo è fondamentale, ma quanto di questo toglie nella criticità, quanto conformismo c’è nella scienza, negli insegnanti, nella trasmissione del sapere e ancor più nell’abitudine da indurre al pratico utilizzo di questo? Quanto viene inoculata la certezza che per ogni problema ci sia una soluzione già pronta, che basta cercare o attendere, che ogni danno così si potrà riparare?  

La funzione del dotto è mutata nel mondo, ed è abbastanza recente la sua professione libera, anche quella dell’insegnante come mestiere di grandi numeri, non arriva ai due secoli e mezzo di età. In fondo, che fosse Maria Teresa, imperatrice d’Austria il sovrano che impose l’istruzione elementare come istruzione di massa, forse aiuta a capire quanto la scuola fu vista come formazione di buoni cittadini e forza lavoro più che luogo per formare individui critici e demolitori di paradigmi.

Dei miei insegnanti molti erano Teresiani in spirito e insegnamento. Non voglio dire che erano bravi o meno, voglio dire che prima veniva la formazione sociale e poi la scienza e che entrambe non erano discutibili. Chi mi ha fatto amare il suo sapere era chi mi conduceva dentro la bellezza del capire il pensiero già stato e lasciava aperta la porta al cambiamento, all’evoluzione. Gli altri erano venditori di cadaveri, alcuni inutilmente severi, che nascondevano difficoltà, ignoranze, troppe certezze e noia. Mestiere difficile quello che si prende carico di spingere fuori dal solo desiderio, dalla facilità, dal senso, i giovani. Credo, dopo tanti anni dopo il ’68, che l’intuizione di una orizzontalità tra chi insegna e chi apprende avesse molta sostanza. Nel senso che c’è uno scambio necessario e se lo scambio non avviene, l’apprendimento vero non si realizza. L’apprendimento è ciò che ci trasforma, non quello che si ricorda. il mio insegnante di impianti chimici a ingegneria diceva che un buon ingegnere doveva saper leggere e ricordare dove trovare ciò che gli serviva per risolvere od almeno affrontare un problema.  Non c’era internet, i libri erano molti e pesanti. Credo ci volesse insegnare che una mappa in testa, un grafo era un modo per essere adeguati.

E non era tronfio. Avrete capito che i tronfi mi stanno sulle scatole, perché non hanno limiti e dubbi. Ma questo sentire forse è solo protezione per i miei limiti, per le mie ignoranze abissali, però se non le conoscessi come potrei vendermi un po’ sopra il mio valore? 

Noi eravamo e adesso cosa siamo?

Queste righe le ho scritte per un blog fatto da Faty e altri giovani, per riflettere sulla condizione giovanile.   http://noclaps.wordpress.com/ 

E’ quello che penso della mia generazione, convinto che questa abbia una occasione unica per non dichiarare il fallimento della propria vita collettiva, delle speranze che ha incarnato, del mondo che voleva ed in piccola parte ha cambiato. Lasciare ai giovani la possibilità di cambiare il mondo è un regalo che facciamo a noi stessi, un bene che ancora non conosciamo.

Questo del rapporto tra giovani e anziani (grandi come dicono loro, con molta misericordia, ma siamo vecchi, irreparabilmente vecchi, se non viviamo le nostre vite lasciando che quelli meno “grandi” di noi vivano le proprie) è un tema che sento molto presente in me, non solo attorno. Ne parlo con mio figlio e con altri giovani, quello che ricevo è talmente vitale che mi pare incredibile che questa non sia la vera riforma che una forza politica di cambiamento sceglie per governare il Paese.

Basta guardare gli eventi sui giornali, o andare alle inaugurazioni, alle celebrazioni. Non importa che siano grandi o piccole. Bisogna guardare nelle prime file, attribuire le età, riconoscere le facce. Se il mondo fosse vero, ovvero aderente alla realtà, dovrebbero esserci giovani uomini e donne in  quelle file. Se il mondo procedesse in un senso lineare e non circolare, uno di  quei giovani si dovrebbe alzare e chiamare un nome, invitandolo a dire di sé, testimoniare qualcosa, passare un testimone, raccontare cosa sta facendo perché adesso il mondo cresca, sia più giusto, vada un poco avanti nella coscienza del bene comune. E il chiamato dovrebbe dire, con la sintesi degli anni, di chi ne a viste, che non s’è stancato di vedere, dire. E poi dovrebbe tornare al suo posto, con una leggera commozione negli occhi e nella voce, perché gli uomini vecchi, anche quelli che non sanno di esserlo, sentono la difficoltà del mondo. Si commuovono. Poi gli passa, ma quel leggero tremore di voce gli scava dentro la sensazione che il percorso che avevano iniziato non si sia compiuto.
Noi eravamo la testa di cento manifestazioni, avevamo un fuoco nelle mani, con cui giocare e fare luce nelle nostre notti. Le notti insonni saranno pur servite a qualcosa. Credo. Spero. Oppure no?

Noi eravamo e adesso cosa siamo?
Forza queta, riflessione, cambiamento senza utile personale, oppure siamo diventati quelli che sembrano i più fortunati di noi: gli smoking delle prime, i culi per sedili delle auto grige, che però sono blù, gli oracoli che distillano saggezza e sono privi di cuore?
Siamo davvero così banali?
Una generazione, la mia, spiaccicata sull’essere-avere, che dopo aver osannato l’essere, ha ripiegato sull’avere spacciandolo per il primo. L’avere è il cialis della mia generazione, quello vero, quello che serve per il coito giornaliero con una vita non consenziente, che invece ti direbbe: fai altro, occupati di altro, dai una mano, mettiti a disposizione. E se non serve a far soldi, meglio, è così bello il mattino senza la pressione alta.

Il grande servizio che compirebbe il nostro sogno giovanile, che davvero prolungherebbe la giovinezza, sarebbe permettere il cambio generazionale, permettere che questa società diventi giovane, faccia errori nuovi, inventi virtù sconosciute, sperimenti piaceri meno banali. Questo chiedo a me stesso e ai miei coetanei: farsi da parte per scelta, che significa essere dentro, nel profondo, della società più giusta che volevamo. Non cacciati, ma utili, disponibili. E’ una così grande libertà dire ciò che si pensa, vivere come si pensa giusto, ed assieme a questa, è ancora più grande la libertà di ascoltare ciò che dice una persona che non ha la tua esperienza, la tua età, il tuo percorso e sentire.

Non annoia, capisci, non annoia. E noi siamo annoiati di noi stessi, sgrufoliamo in un mondo che è nostro, ma che contiene una domanda terribile: è un mondo peggiore di quello che abbiamo ricevuto?

Bisogna lasciar fare ed essere lo stesso, affrontare la realtà e non occultare il cadavere. Non faranno peggio di noi, avranno misericordia e cuore e soprattutto non annoieranno come noi stiamo facendo.

no party

Credo che al di là dei nominalismi, del fascino delle parole d’importazione (indignados o altro), un sinonimo per la quasi perduta generazione, dei venti-trentenni, sia offesi.

Questa parte del paese è offesa perché privata di un orizzonte comune, di un ambito in cui poter dimostrare quanto vale. E deve valere, questa generazione, altrimenti non essa, ma il paese non ha futuro. Nei racconti, più o meno horror, della nuova chirurgia sostitutiva, si evoca ciò che potrebbe alimentare le banche d’organi, ovvero la donazione coatta o peggio. Ecco nel caso di questo nostro corpo sociale, una parte, quella giovane, sta coattivamente alimentando altra parte del corpo sociale. Sostituisce braccia, cuori, cervelli e capisce d’essere solo organo, non organismo.

I dati inps sulla gestione autonoma del popolo ( che è un modo per prendere in giro delle persone obbligate ad avere meno diritti) partite iva, informa che questa parte della previdenza, è in forte attivo: oltre 1.3 miliardi. Si dirà facile, questi contribuenti sono giovani, non hanno pensionati da sostenere, ma in questo caso non c’è accantonamento per le pensioni future, il gettito alimenta le altre pensioni, quelle dell’Italia dei pensionati baby degli anni 70-90, quelle dei trattamenti privilegiati e normali. Normale che che le persone attive assicurino i diritti maturati dalle persone in quiescienza, anormale che i primi non abbiano un orizzonte di diritti eguali.

Non mi interessano le guerre tra poveri, ma la questione del lavoro e della sua relazione con la vita privata e sociale dell’uomo, è il problema principale di questo paese. Senza una soluzione a questo problema anche l’evoluzione politica dell’Italia è bloccata, consegnata ad una sterile diatriba, tutta interna ai partiti, mentre cresce il partito dei no party, ovvero dei senza partito, dei senza storia, dei senza ideali. I bisogni non creano una nuova classe politica, ma certamente possono scrivere l’agenda delle priorità. La grande beffa è che in questo momento la crisi economica occlude tutto, e chi è più colpito dalla crisi dovrebbe fare lo sforzo di diventare un gigante, un soggetto che conosce il linguaggio sociale, che diventa alternativo e si struttura per restare permanente e alternativo. Gli esempi non mancano in Europa, i Grünen tedeschi, il nuovo governo Islandese, fino ai movimenti che stanno nascendo un po’ dappertutto, motivati dalla deprivazione di presente e futuro, ma anche da una carenza di evoluzione dei vecchi schieramenti storici di destra e sinistra, incapaci di affrontare una visione glocal del mondo.

Mi sono chiesto perché non c’è una protesta strutturata in Italia, perché ci sia sempre un ondeggiare tra entusiasmo e depressione, con vampate, che poi si spengono in fretta. Credo si tratti di una coscienza forte del proprio disagio senza un nemico certo, quindi priva di alleanze patitetiche, che manchi di base popolare (ma questo non è un problema, la storia viene spesso indirizzata da elites più sensibili) e che al tempo stesso, questa protesta, sia inserita in un sistema che sta ancora aggiungendo risorse private. Cioè il fondo del barile è nella famiglia, nei pochi risparmi disponibili. Ma anche nell’ideologia individualistica che è penetrata in questi anni di berlusconismo poco contrastato sul piano sociale e che porta il problema nella soluzione individuale, non collettiva.  

Ci si lamenta della scarsa reattività dei partiti di sinistra riformisti, ma ciò che vive deve credere in sé. E se questo vale per il nuovo, vale anche per le strutture ormai moribonde, per le quali la credibilità verso se stesse è necessaria per conservare i privilegi. Bisogna saperlo e contrattare con questa esistenza, oppure avere sufficiente forza per ribaltarla. Molto spesso tutto finisce per inclusione e la protesta non assume sostanza politica di cambiamento. Una coscienza collettiva dell’offesa, può cambiare le cose, se ha la capacità di inserire le ragioni della protesta nella politica. E soprattutto se è in grado di pervicacemente insistere, mostrare, far diventare moda (in senso statistico) ciò che è percepito come marginale. Mi sono chiesto spesso cosa manchi all’Italia perché si attivi una vera protesta, non ho risposte, casomai sensazioni. Una di queste è, la discontinuità della protesta, la sua episodicità che sembra non testimoniare un problema vero. La seconda è la mancanza di una piattaforma comune e di obbiettivi raggiungibili. Il tutto deve essere esplicito, alla luce del sole. Non importa quanto alti siano gli obbiettivi, ma chi li propone dev’essere convinto che sono raggiungibili. La terza condizione è che i movimenti, forse per preservare una purezza presunta, non cercano alleati con cui parlare da pari a pari. La quarta ragione è che solo una ristretta minoranza di giovani è convinta che il proprio futuro passi attraverso una propria protesta collettiva, gli altri sembrano occupati in altro. Tutte queste condizioni possono essere mutate, ad esempio quanto ho citato sulle pensioni mi fa pensare che possibili alleati naturali per la soluzione dei problemi della generazione senza diritti, dovrebbero essere i beneficiari di questa situazione, cioè i pensionati. Ma per far questo non basta la giustezza delle ragioni, serve la capacità di tessere alleanze, il non isolarsi. Molti, come chi scrive, è dalla parte di questi giovani, disponibile a battaglie comuni e sente la loro condizione come offensa. Creare alleanze con i padri è forse la novità e il discrimine di questa stagione del mondo, ma si può fare. Si può fare.

Nei prossimi giorni ci sarà una manifestazione nazionale sul precariato, se accanto alla protesta “ufficiale” dei sindacati e dei partiti di sinistra, ci sarà una presenza grande dei senza partito, dei diretti portatori di bisogni, ordinata, con il silenzio di chi è senza parola in questo Paese, senza furia ed incidenti che alienano ogni consenso, ci sarebbe un enorme impatto ed un segno di identità e di forza. La vera premessa per quel partito nuovo, il no party progressista e risolutore dei problemi che non solo i giovani vogliono.

p.s.esiste un blog che parla di queste cose, imparo molto da ciò che vi leggo:  http://noclaps.wordpress.com/

sono gli stessi

Non è un governo diverso da quello dello scorso anno. 

Era Scilipoti, forse, che doveva convincere Standard & Poor’s a dare fiducia? E’ cambiata la maggioranza, ma non è cambiata nella sostanza e l’hanno capito, si vedeva e sentiva. Neppure la fuori uscita di Fini, ha cambiato la sostanza: sono gli stessi.

Confindustria se ne accorge ora? E gli altri che cominciano ora a prendere le distanze dov’erano? Un paese di pavidi viene declassato da un’agenzia discutibile, ma resta pavido. L’Europa per convenienza, un poco ci difenderà, ma ci ha già declassato come importanza: siamo inaffidabili. E questa consapevolezza non ci basterà per avere uno scatto d’orgoglio e cambiare il Paese. Cosa dobbiamo ancora soffrire, perché ci sia una reazione?

Questo Paese non cresce, non ha una visione chiara del suo futuro, rifiuta la malattia. Ci perdiamo dietro i vizi di uomini piccoli e perdiamo la misura di quegli uomini: sono piccoli e servono giganti. E’ finita l’epoca della normalità. In questo sta la pavidità, una qualità miserevole per l’individuo e per un popolo, perché il pavido non salva nessuno, se non se stesso, neppure i suoi cari, salva. Invoca l’istinto per dismettere l’intelligenza che porterebbe ad una scelta diversa.

Ci sarà un’altra manovra, altri miliardi verranno tolti a chi è già in sofferenza e la rabbia ancora non monterà. Tutto questo ha un nome, un progetto politico che ha avuto consenso, alleati, ma la tentazione sarà di rimuovere tutto, di parlare di secessione, di orgoglio. Da chi, da se stessi? la lega ha governato assieme, è complice del disastro, si è immersa nel berlusconismo per convenienza politica, per furbizia e non per un progetto politico coerente.

Qui di solito si dice: si ma anche l’opposizione. Certo, anche l’opposizione, il Pd, e non solo, non ha fatto a sufficienza, ma questo è parte della malattia. Sono gli stessi. E questo paese è malato. Adesso non basta per trovare una soluzione economica, serve una proposta politica credibile, che dia un motivo ai sacrifici, indichi un percorso, una luce. Se tutto resta così, il fatto di avere questo parlamento non risolve la situazione, anzi l’aggrava. Questa difficoltà non sarà facile da risolvere, la vera novità sarebbe il rigore morale nella politica. Questo potrebbe essere il discrimine, un terreno solido da cui partire, ma bisognerà con umiltà, andare avanti guardando al mondo e al Paese, con un’unica direzione: la bussola del bene comune.

L’evidenza e la forza del bene comune, un programma fatto solo di questo per uscire da questo 25 luglio senza una guerra civile. Le guerre civili non sono sempre cruente, sono le guerre che spaccano, dividono i popoli, li collocano su versanti d’odio. Ecco, dovremmo evitare questa guerra civile.

La chiesa non si può tirar fuori da quanto accade, ha protetto, cresciuto il berlusconismo, ha chiuso gli occhi davanti a questioni morali che hanno aperto baratri nel Paese, Sono gli stessi, doveva riconoscerli, ma anche la chiesa è la stessa. Vuole restare in politica, influenzare e determinare le scelte senza prendersene le responsabilità. Penso però che, com’è accaduto dopo aver benedetto i gagliardetti fascisti, anche questa volta alla fine raccoglierà i vantaggi della caduta e ribadirà la sua terzietà. Magari fosse terza, ma non è così.

Oggi è il 20 settembre, cadeva Roma papalina e vinceva l’apparato della chiesa. Il regno d’ItaIia, nonostante una legge giusta e avanzata, le guarentigie, sarebbe stato condizionato fin dal suo inizio dalla non accettazione da parte della chiesa del fatto di non avere un potere temporale. E il potere temporale prese altra forma, accumulando da allora la diversità dei cattolici e i loro vantaggi. Allora come adesso, vantaggi, che miseria davanti a un paese spezzettato. Sentiremo il cardinale Bagnasco, venerdì, ma non saranno parole chiare e soprattutto non ci saranno azioni chiare. Non ci sono mai state perchè c’è molto da perdere e soprattutto non si vuole che questo sia uno stato laico, per cui in maniera felpata si preparerà il dopo Berlusconi, si darà fiato ad un partito di centro che consolidi la differenza, si dirà che i cattolici non hanno un partito, ma non si devono dividere.

Che significa dividere i cattolici in politica, quando è il paese che affoga?

Sono gli stessi, e non invochiamo il principe di Salina, parliamo ai giacobini, parliamo ai riformisti, parliamo agli uomini di buona volontà. E’ ora, che il nuovo non sia il vecchio. E’ ora.

patto lenonino

Del tuo fornitore abituale, meraviglia il fatto che faccia altro. Che scriva poesie, o intraprenda in hi-tech, che sia operatore notturno di borsa, oppure abbia qualche lavoro diverso da ciò che conosci. Per te resta sempre legato alla cosa che ti fornisce, fosse questa due etti di stracchino oppure un’ auto usata. Altrove avrà famiglia, interessi, abilità, passioni e pensieri elevati, e saprà suonare, scalare vette di pensiero, ma lui per te, nel lavoro, è quello che vi ha fatto incontrare. 

Chissà cosa pensava Tarantini, quando a un puttaniere forniva ragazze secondo misura e gusto, che lo si considerasse un imprenditore in vacanza? Forse pensava che la sua abilità nel soddisfare desideri, gli avrebbe dato crediti d’intelligenza nell’intraprendere. Magari credeva che il pappa si sarebbe dissolto nell’uomo d’affari. E invece che si trattasse di protesi sanitarie o di appalti in lavori pubblici o semiprivati, la sua funzione era quella del procacciatore di donne. Era si, fornitore di protesi, ma quelle allo smisurato senso di onnipotenza di uomini incapaci di discernere ciò che separa potere da funzione pubblica.

Tarantini pensava che i soldi lo facessero capitano d’industria e la frequentazione del potere, generasse il prodotto. Cercava appalti, grandi infrastrutture, ma era specializzato su tutto, fosse un gasdotto oppure il monitoraggio elettronico per protezione civile, bastava chiedere. Come per le ragazze. Parlano di oltre 50 milioni di appalti  che potevano essere assegnati. Questa è una tragedia per un Paese allo stremo della fiducia, induce a pensare che ogni sacrificio sarà ingoiato dal malaffare. Questo gli imprenditori non se lo meritano, quelli che resistono come i lavoratori, quelli che mettono quello che hanno in un’ idea, nel loro lavoro. Questi non se lo meritano. Ci sono i prenditori, quelli che portano via e basta, senza dare, e gli imprenditori, quelli che, comunque la pensino, rischiano e generano ricchezza.  Se il capo del governo, l’impresa pubblica, favoriscono i prenditori, i primi a soffrire saranno i secondi, oltre che l’etica pubblica. Accade, accadrà, ma il mercato è un buon regolatore nel tempo, tollera e magari glorifica i ladri, ma prima o poi demolisce gli impostori. Le abitudini sessuali dei capitani di pensiero, politica o industria sono comunque legate ad un prodotto ed è questo che alla fine fa la differenza vera. Ma adesso ci sono le macerie e i disastri morali e materiali.

A Berlusconi piacerebbe essere ricordato per le sue grandi “opere”, a suo dire, fatte. Non sarà così, per un po’ resterà un uomo di potere e denaro, perduto dal suo essere puttaniere oltre limite e poi basta. 

Questo momento di disperazione morale, ricorda il ’45 di Mussolini, i proclami e i discorsi dell’ultimo periodo. C’era chi ci credeva, chi, per convenienza o altro, si lasciava imbabolare, il consenso s’era già disfatto, travolto dalla realtà. Si attendeva la fine.  Adesso non c’è la guerra per fortuna, e neppure i nazisti in casa, ma il travisamento dell’evidenza, la sua percezione distorta, la fantasia di una soluzione risolutiva, un’arma speciale e definitiva in grado di ribaltare tutto, questo c’è. Poi si finisce a sputi e questo si vorrebbe evitare, non farà bene a nessuno perché questo Paese è stato consenziente e pavido. Finirà, e speriamo presto, per questo soccorre la pervicacia del perdersi, che oltrepassa ogni soluzione, consiglio o limite.

sciopero

A volte pare che la differenza tra vecchio e nuovo, tra principii e contingente, debba sempre propendere verso il secondo, come si vivesse sempre nel giorno ed il futuro non fosse determinato proprio da ciò che facciamo oggi.

Non è solo un invito a togliere dalla nebbia queste generazioni future che, come disse un parlamentare democristiano, quando ancora il debito pubblico veniva generato per spese sciagurate: ma chi cazzo sono questi posteri, che neppure votano. Ma la necessità di salvare il salvabile perché la miseria dei giovani sta traboccando, invade il paese e dilaga sulle altre generazioni. Il problema della crescita diviene tanto centrale che è la misura della adeguatezza di chi governa. Invece si preferisce, o con la modifica all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, o con le misure che mettono le mani in tasca a chi non ha più tasche, dividere sindacati, forze attive, generazioni. Il monologo di Agrippa applicato al contrario, ovvero disgiungere le membra per cibarsi del corpo.

Cannibalismo sociale, ecco quello che sta avvenendo nella coscienza indotta. La Cgil è stata fortunata, il consenso allo sciopero è cresciuto con la dissenatezza di quanto avviene politicamente con la manovra, quando è stato proclamato lo sciopero la modifica sui contratti di lavoro ancora non c’era. Però c’è un messaggio che non viene colto in questo sciopero, come in molti lamenti, proteste che vengono derubricati come routine: il paese si sta sgretolando. Politicamente, socialmente, prospetticamente. Manca un mare comune in cui salvare la barca. Non è la solita questione tra apocalittici e integrati, è l’uso della parola modernismo che è usurata, che nasconde altro, il confronto dialettico tra cambiamento e conservazione deve essere chiaro, poi vinca il migliore. Invece si confonde tutto per trarne vantaggio e si occulta la centralità del produrre e della crescita e del suo fine sociale. Ci si può scannare sui modi, sulle teorie, sulla ragione, ma la relazione tra ciò che accade e ciò che sarà, non può essere consegnata ai mercati.

Vedete, e qui concludo, nella crisi dei sub prime, molte banche e i mercati finanziari, sono state salvate dagli stati sovrani che si sono indebitati per questo, sono gli stessi che adesso, stanno attaccando gli stati sovrani per fare profitto sul fallimento degli stati. Tanto che mi auguro che una nuova bolla, una nuova crisi metta in ginocchio nuovamente le banche, i fondi, la finanza per distogliere l’attenzione dagli stati. Ciò che muove tutto non è la concezione etico protestante del profitto, ma la sfrenata crescita del far denaro senza corrispettivo sociale. In questo la Cgil è più moderna degli altri sindacati, difende principii, realtà sociali che devono valere erga omnes, non fabbrica per fabbrica, generazione per generazione. Nella cultura del lavoro il denaro è uno strumento, un mezzo, nella società del profitto, il denaro è un fine.

una risata vi seppellirà

La rivoluzione vera è allegra, anche l’opposizione vera lo è. Si prende sul serio nelle cose fondamentali, ma il resto è ironia, auto ironia.

Prendere sul serio l’avversario, significa combatterlo, e il riso è un’arma terribile. Introduce il dubbio, la sfiducia nella sua forza, va ben oltre la nudità del re, ne vede il pisello ridicolo, i fianchi flaccidi, la caducità del corpo e della mente.

Il ridere è sempre stato una difficoltà della sinistra, ci siamo sempre presi troppo sul serio, avevamo cose importanti da fare. Salvare il mondo, modificarlo positivamente, ad esempio. Questo impediva di vedere il limite delle cose che si facevano, tutto era importante, serio, definitivo. Cosa ci può essere di talmente serio in un’alleanza con la lega, con Casini, con Fini? Si sa che dura poco, è funzionale a un risultato tattico, ma non cambia nulla del mondo che volevamo. Semplicemente mette in luce la nostra insufficienza, incapacità di essere convincenti. Le persone vogliono speranza, leggerezza, libertà di non credere al messia di turno, qui aiuta il ridere, il lato comico delle cose e del potere. Non occorre essere sguaiati, basta conservare l’ironia, capire il limite, denunciarlo allegramente. Nella crisi economica che stiamo vivendo quanto cambierebbe il mondo se alle facce serie che ci impongono i sacrifici che loro non faranno, una risata crescesse. Non li prendesse sul serio, si opponesse, consumando meno e diverso, per non pagare tasse su consumi che non ci appartengono. Se esaminando le nostre vite, la parte allegra emergesse, le gioie e le tristezze diventassero davvero il centro del vivere, rifiutando i palliativi, le sostituzioni che si pagano, quando cambierebbe la galassia delle cose importanti?. Queste manie dell’eccezionale, dei vini costosi e rari, dei miti del cibo a tre stelle Michelin, della vacanza in luoghi esclusivi ed esotici Le vite eccezionali, senza limiti di spesa e di sensazione. Lo spettacolo, lo sport come storia del meraviglioso, ma cosa c’è di meraviglioso in tutto questo? Vivere, far l’amore è bello in sé, perché il contesto dev’essere indimenticabile? Se guardo le mie ciabatte sono ridicole, ma mi mettono allegria, mi fanno stare bene, sono me.

Ridere del lusso, del potere, dei propri tic e ancor più di quelli dei potenti, riporta meschinità della miseria vista dai maggiordomi, la vita è fatta di funzioni corporali, pensieri incerti, cedimenti resi abitudine, età. Passano. Passano come tutti. Sono uguali a noi, spesso peggio, perché tanto rispetto? Non permettiamo loro di modificarci le vite, togliendoci la libertà di ridere, di noi stessi e di loro.

Bisogna ripeterlo ogni giorno: siete ridicoli, noi siamo importanti e non ci sottometteremo. Ci fate ridere e una risata vi seppellirà.