Quando una persona che conosci e che spesso è a casa non ti risponde più volte al telefono cerchi qualcun altro che gli è vicino o lo conosce. Ho cercato allora suo fratello, un mio vecchio collega con cui avevamo condiviso, storie, cene, lunghissimi discorsi, vino. Non necessariamente in quest’ordine, ma sempre con il piacere di incontrarci. Neppure suo fratello ha risposto al telefono.
Un mio caro amico mi ha raccontato che più o meno un secolo fa era accaduta una tempesta elettromagnetica solare così violenta che per settimane c’erano state aurore boreali a tutte le latitudini, disturbi dell’umore, tracce sulla crescita delle piante, animali che impazzivano, interruzione in tutte le macchine elettriche che a quel tempo facevano ben poco per tenere assieme la civiltà. in questi giorni c’è una tempesta in corso, ma ci ha regalato solo splendidi tramonti, se avesse voluto infierire l’intera civiltà si sarebbe paralizzata e nessun telefonino, centrale elettrica, macchina ecologica e non ecologica avrebbe funzionato. Che fare in questi casi se non tornare a carta e penna e così ho fatto: un biglietto in cassetta postale con la richiesta di notizie. Dopo qualche giorno è arrivata la telefonata da un nuovo numero e con essa la relazione dello stato di salute non buono del mio amico e ancor peggio quello del fratello. Era in un istituto ormai da mesi, spesso scordava dov’era e cercava il suo banco da lavoro, la lente da mettere all’occhio, gli infiniti cassetti da cui estraeva viti e ingranaggi, poi la sua mente andava ai viaggi innumerevoli fatti in tutte le parti del mondo, in condizioni molto vicine agli abitanti dei paesi che visitava, allora venivano fuori racconti di avventure, di fatti inusitati per l’esperienza comune, di meraviglie viste e perdute, ma ben presenti nella sua mente. I vicini lo ascoltavano, poi pensando fosse un romanzo, ed invece era una vita, si stancavano e andavano dietro ai loro pensieri.
Il mio amico, mi raccontava con precisione cosa era accaduto e accadeva al fratello e a sé e traeva delle conclusioni sul vivere, sulla necessità di avere qualcuno vicino, sulla solitudine che inevitabilmente prende il sopravvento quando ciò che si ha da dire è molto, troppo per chi ascolta e non ha la stessa esperienza. Finché parlava, poi glielo dissi, immaginavo che al fratello, portassero il tavolo da lavoro, quello con il ripiano che aveva una insenatura per il corpo che si inseriva in esso, le fotografie ormai falsate nei colori messe in cornici con altre fotografie messe ai lati come compagnia di terre lontane da tenere vicine e che lui, messo davanti alla finestra come a casa, ricominciasse a mettere insieme macchine, piccoli automi meccanici, orologi che avevano bisogno di essere lubrificati, come accade alla mente quando ricorda e a volte si ferma per guardare lontano, oltre il vetro ma in realtà guarda dentro e vede, e sente, e un ricordo si mescola ai suoni esterni, e ha un sapore che nell’aria non c’è, un colore che non esiste perché è un frullo di luce che per un attimo ha colpito la retina molto tempo fa.
Le sue mani, il corpo stesso era un tutt’uno con ciò che aveva fatto e faceva, la delicatezza dell’entomologo, la sensibilità del pittore, la precisione dell’inventore che organizza in nuovo modo il consueto e rispetta ciò che già funziona per farlo funzionare meglio. Lui era tutto questo, capace di camminare per giorni mangiando banane e cocco in luoghi in cui passavano ben poche presenze estranee, era in grado di vivere tra persone che adottavano i linguaggi sconosciuti o dimenticati, del corpo, del viso, del tatto, delle mani e tornato a casa scaricava la sua piccola macchina fotografica. Faceva stampare le fotografie che erano sempre poche ma ciascuna l’inizio di un racconto, salutava il fratello e riprendeva il suo posto tra suoni di pendoli, battere di secondi, impercettibili sussurri di orologi di gran pregio che solo lui sapeva rimettere in ordine nella città.
Per questo pensai che ovunque fosse avesse bisogno della sua zattera, del suo tavolo, della luce concentrata, della lente sull’occhio e delle pinzette di varie dimensioni, ma tutte minuscole come i cacciaviti e le frese sottili. Pensavo al cassetto dei quadranti dove si mescolavano nobili e plebei in allegra confusione, perché l’utile non dipende dal nome ma da ciò a cui qualcosa serve, pensavo alle viti che erano come i grani di pepe che aveva portato dall’isola delle spezie e che forse per lui avevano lo stesso profumo. E forse pensava, chiamandolo e prendendoli tra le punte aguzze delle pinzette, ai nomi delle cose che ruotano, che trasmettono il moto con lentezze esasperanti, che dominano il tempo e sono così inusitate da richiamare ben altro nella vita quotidiana. Nomi antichi che venivano dal medioevo, nomi dati da eretici ugonotti poi ginevrini, nomi che si erano portati in una sacca gli attrezzi per la misura del tempo, per costruire orologi, assieme alle bibbie e le eresie che avevano rimesso in moto l’Europa e poi le Americhe. Nomi che gli orologiai scambiavano tra loro, che regolavano il mondo, il correre dei treni, gli appuntamenti amorosi e quelli d’interesse, nomi che muovevano migliaia di persone , che li allineavano in catene di montaggio, nomi da campanile quando l’alba e il tramonto, la fame e il sonno non bastavano più. Nomi assemblati con cura senza errore perché in un orologio è il mondo che funziona e il tempo si muove danzando con esso, in sincronia perfetta.
L’orologiaio che aveva conosciuto il mondo, gli orologi d’acqua e di sabbia, le sfere giganti delle torri, gli astrari e la precisione delle menti che sapevano descrivere l’ora dal moto del sole o da quello della luna. Lui che aveva capito che atmos, l’eterno orologio che si muove per le variazioni di pressione era pur sempre un’approssimazione del tempo, come ogni orologio, compreso quello atomico che basa se stesso nei tempi di decadimento di una particella, compreso quello dell’universo dove il tempo conta davvero poco ed è l’energia a farla da padrona finché non emergerà la gravità quantistica a rimettere ordine alle cose. Lui sapeva che ciò che metteva assieme, per quanto preciso, era una approssimazione di una convenzione e che l’esattezza era in chi guardava le cose evolvere, lo sapeva mentre adattava se stesso a ciò che mutava, fosse l’inferno della Dancalia o il verde infinito dell’Amazzonia o semplicemente ricostruire una mozza o un bilanciere perduto. Il tempo era nell’uomo e lo approssimava e da esso era approssimato. Questo lo rendeva leggero su ciò che di mirabile faceva, conosceva il senso del tempo e della sua misura e di tutto ciò che era apparenza e veniva portato al polso, messo su un mobile importante, appeso a un muro pregiato, conosceva il limite. Il tempo ripete se stesso, mentre l’uomo era una fonte continua di meraviglia, questo era il senso dei suoi racconti.
Non gli hanno dato la sua zattera, così penso che dolcemente si sia lasciato andare al flusso dei ricordo, al fiume di tutto il tempo che aveva regolato e che ora non aveva più significato. Penso che ora sia un bel viaggio, l’ultimo che ancora può raccontare senza parlare, certo che chi lo ascolta adesso sarà attento e sorriderà alle sue parole su ciò che è urgente e ciò che non lo è mai stato.











Splendore e Meraviglia. 🙏
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Letto e gustato … Una storia importante ,tanto significativa . È Il tuo amico …
E arriva il senso di solitudine . Bisogna viverlo …
Forse qualcosa va corretto dentro di noi, un modo di essere nel mondo , un modo di vivere .
Un modo di stare con noi stessi e con gli altri
Un modo di ascoltare…di camminare . Proviamo ad aspettare chi non può correre … Fermarci ,
il tempo c’è, basta non sprecarlo. Buonissima serata
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Hai ragione Francesca, c’è qualcosa da correggere. Per me è dare un significato a quel noi che non è branco, né opinione comune, ma comunicazione. Si impara molto nel comunicare e nell’ascoltare. Il tempo conta solo se non è una minaccia, ma un’occasione di vita.
Buona notte.
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Si rafforzare quel noi che non è branco è importare come comunicare attraverso il confronto.
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È importante …
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