









Appropriata.
La luce entrava dalla finestra e curiosava sui libri scrutandone i dorsi, compitava le sillabe, si soffermava perplessa dinanzi a un suono che non lasciava intuire il suo proseguire. Un titolo annuncia, è uno squillo di tromba, una porta appena dischiusa, una traccia che attira ma non disvela. Ecco la soluzione, il titolo che la luce leggeva era un’impronta che proseguiva all’interno dove essa non poteva vedere. E questo sembrava una limitazione alla luce e alla sua natura che evidenzia ciò che può essere visto mentre spetta all’ombra lasciare le cose nell’indeterminato e nel possibile, ma soprattutto nel non vero. Per scacciare il pensiero, la luce distoglieva lo sguardo e indagava altrove. Sugli oggetti che erano sulla libreria, sul loro ordine che forse ordine non era, ma rispondeva a un pensiero. Alcuni parallelepipedi erano poggiati gli uni sugli altri. Neri o argento, erano pieni di quadranti spenti che per un attimo rilucevano alla carezza dei quanti che colpivano lancette e led, ma non parlavano ed era un attimo perché poi vagava smarrita sull’opulenza di grosse manopole, entrava in cavità misteriose, carezzava spigoli acuti. Strafottente il metallo, rispondeva, prima era stato spazzolato e poi polito, ora si opponeva al raggio che lo indagava e lo rifletteva, deviandolo su pareti, mobili, libri. Quegli oggetti, grossi di potenza, ora silente, erano il confine di distese di rettangoli di plastica traslucida, la luce non poteva immaginare il cd che avrebbero ingoiato per trarne musica, il recitar cantando, perché di primo mattino tutto stava ordinatamente impilato. I cd poteva scorrerli assieme a molti altri, ma erano pudichi nel mostrare le loro colorate copertine. C’era solo colore e lettere, forse nel buio, chiacchieravano tra loro vantando affinità e primati, mormoravano dei momenti gloriosi registrati in tempi in cui il mondo pensava, gioiva, soffriva, diversamente. Dicevano di Alma Rosé, passata dalla gloria dei palcoscenici alla camera a gas, e quel Furtwangler registrato a Berlino in una pausa di bombardamenti a cui si opponeva una settima di Shostachovic, testimone di una resistenza immane che si era alimentata anche di musica mentre le persone morivano di fame e di granate. La luce leggeva, scivolava e si spingeva dentro una vetrina piena di solidi di cristallo e di oggetti. Incauta si scomponeva e rifrangeva tra prismi e cubi trasparenti ma ben più densi e impertinenti dell’aria, così cercava di ricomporsi nell’attraversare coni e sfere, ma gli uni la spandevano mentre le altre la concentravano in punti minuscoli che si spostavano piano con il sole. La luce ogni mattina, entrava silente, cresceva in pienezza sinché l’intera stanza era colma di un a luce che traboccava, gonfiava le tende, mostrava colori nascosti e attendeva che vi fosse un primo muoversi , lo scalpiccio dei piedi nudi, il clangore del metallo della caffettiera che urtava il robinetto e poi la sequenza sapiente delle operazioni che rendono ogni caffè diverso dall’altro perché in sintonia con una mente e un’abitudine. La stessa che muoveva una sedia, scostava la tenda , sedeva e guardava i tetti, fino al profumo e al borbottio che si sarebbe sparso ovunque. Attendeva, la luce piena, lo sbadiglio, l’ultimo, il tintinnare del cucchiaino e la musica che ora usciva dai parallelepipedi risvegliati. Era mattina, era ora e lei era stata appropriata.
Appropriato.
Modo d’essere che mantiene uno stile personale di gesto o parola, mentre si conforma ad un codice accettato dai più, fatto legge per consuetudine. Rassicura nell’appartenere a un gruppo, rassicura il gruppo sull’appartenenza. Di per sé è esteriore, non rivela e non parla se non dell’apparenza. Il profondo, l’intimo, la stessa verità non filtrata dalla appropriatezza sono percepiti come violenti, fastidiosi. Il pensiero, la parola, il corpo devono essere pubblicamente in sintonia, rallegrare e non disturbare.
Si sedeva sempre allo stesso tavolo, ogni sera, con la sedia verso il tramonto. Questo, mutava con le stagioni, era filtrato dagli alberi e dagli edifici ma c’era un tempo non breve in cui le cose diventavano fondale, scena in modo da lasciar passare una angolatura di luce piena, aranciata o rossa, densa e gonfia di polvere e umidità raccolta nel giorno. La luce invadeva tutto, raschiava le ombre dagli anfratti in cui s’erano rifugiate, toglieva lo sporco alla strada e alle case, distribuiva tutto in una corrente di pulviscolo, alzava le voci, fermava le persone che passeggiavano, mentre le altre già ferme, si voltavano stupite di tutto quel colore improvviso, dei particolari prima inosservati e avevano voglia di commentare. Facevano osservazioni leggere sul tramonto, sulla città che mutava, sul tempo, su chi attendevano o se n’era andato da poco e perdeva quello spettacolo. Come per una recita o un concerto particolarmente importante, il tramonto faceva sparire ciò che era banale ed esaltava quello che s’accordava alla sua importanza, al significato della bellezza, al suo ripetersi diseguale, alla brevità che non è caducità ma modo d’attendere il nuovo che s’annida in quello che è apparentemente uguale o poco differente nello sguardo distratto. Per questo si vestiva in modo appropriato e non si perdeva l’appuntamento, spesso da solo, raramente con la compagnia delle stesse persone, era al suo posto. Il vestito ben stirato, le gambe accavallate con cura, fumava sigarette forti, a quel tempo si poteva fumare nei bar, e guardava innanzi a sé con un sorriso che si mescolava alle parole scambiate con il personale o con i vicini di tavolo. Anch’essi pensava, fossero parte di quel vedere che ciascuno mescolava con i propri discorsi, attese, percezioni della bellezza.. Anche se non era così, lo pensava e tanto bastava, gli bastava. Sentirsi unico e insieme parte di un gruppo , anche in conseguenza del piacersi e del piacere. Pensava a come muta il rapporto con il proprio corpo con l’età e l’umore e lo vedeva già nei ragazzi e nelle compagnie che annullavano ne chiasso il guardare perché era importante, per loro, emergere con forza, acquisire identità prima che il tempo diventasse un crivello che lasciava passare in misura differente le attitudini, i desideri, i progetti. Pensava al tempo e a come esso diventi giudice di noi stessi se non siamo in sintonia con il suo incedere. E sentiva come esso diventi interiorità con il suo passare, abitudine in superficie contenuto nel profondo. Né le une né le altre potevano essere rivelate, sarebbero state inappropriate ma nel silenzio, cercando, si trovava un equilibrio che permetteva alla psiche e al corpo di parlarsi. Questa consapevolezza subentrava in misura differente, non per tutti e spesso tardi e quell’equilibrio era sotto l’identità esteriore, percepibile a chi voleva coglierlo. Il corpo, con le sue sensibilità e intelligenze, non smette mai di parlarci, pensava, ma usa linguaggi diversi: quelli che possiamo capire. Il corpo ha sempre fatto paura proprio per questa sua intelligenza e capacità di comunicare che segue logiche insieme legate al momento e additive di ciò che è stato. Per questo si copriva o scopriva il corpo, per conformità e comodità, ma il pudore era interiore ed era altra cosa.
Finito il tramonto, nel blu che oscillava con lampi di verde e azzurro, si alzava, se c’erano amici, si avviava conversando, se da solo, ripensava alle strade che gli avrebbero prolungato il piacere con le lampade della sera e con la luce che mutava in ombra ciò che prima era ostentato. A volte notava particolari nuovi proprio nell’ombra, e la mente metteva da parte una nuova sensazione che si aggiungeva al bello del giorno.
Bellissimo!
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Questa tua descrizione intorno ad Appropriata… Appropriato si è trasformata in un racconto nitido , per certi versi luminoso …Il tramonto porta con sé la bellezza che riusciamo a cogliere .
L’insieme contiene le parti che compongono il “tutto “,anche le sfumature un po’ più complesse . Willy che bello ! Buona serata 🤗
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Grazie Francesca, hai ben letto, essere in equilibrio è sempre una bella tentazione/sensazione. Buon pomeriggio 🤗
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