Ci siamo abituati a dire una cosa e il suo contrario, in rapida sequenza, pronti col fazzoletto a salutare e mai a partire.
Animi arrovellati per dire chè? Che manca il coraggio, che il dubbio spadroneggia, che di un’altra vita c’è necessità e nel frattempo, scaviamo piano le fondamenta dell’infelicità.
Eppure basta leggere, per vedere altri coraggi, parole e storie diverse raccontate senza i percorsi circolari dove tutto torna da capo.
Il ricordo del gusto dell’amaro affonda nella mia fanciullezza quando la nonna, con cui vivevo, mi faceva assaggiare e magnificava le doti di certi brodi ottenuti dalla bollitura di radicchi di campo per depurare il sangue. Non ho mai capito perchè il mio sangue avesse queste necessità di depurarsi, che poi ben altro era l’effetto e mi pareva poco affine al sangue, ma la cosa aveva un certo fascino ed anche corrispondeva ad un’idea equilibrata del vivere dolce. Il tutto veniva arricchito con splendidi panini croccanti alle quattro del pomeriggio, che ospitavano i suddetti radicchi saltati in padella con lardo o pancetta. A farla breve, ho imparato a distinguere ed apprezzare presto che esisteva un amaro non connesso alla punizione, e che questo gusto così sapido, esaltava il dolce successivo e lo trovava in parti piccole ovunque. Tra le tante pratiche strane e formative di un bimbo di città, nella quotidiana uscita ai giardini dell’arena, c’era lo scapicollarsi nella macchia folta poco potata e soprattutto una costante lezione su ciò che era commestibile e ciò che era velenoso tra quelle bacche che le stagioni e la dovizia di verde mettevano a disposizione per i giochi. Assaggiavamo, sotto la guida di maldipancia più anziani di noi, come il colore fosse quasi sempre ingannevole ed invece un dimesso proporsi, procurasse scie di dolce in bocca. Le bacche per gli inchiostri, prima genesi di una passioncella futura, erano ben distinte da quelle destinate ad essere munizioni per le battaglie serotine, portando alle tasche, le munizioni da bocca che avrebbero striato di dolce il gusto. Era un dolce tenue, per animali poco assuefatti a biscotti e che si nutrivano di panini, spesso fantasiosi, ma per me, già ammaestrato all’amaro, quelle bacche e quei panini provocavano un piacere particolare. Se la felicità davvero consiste nel vivere la vita nelle sue manifestazioni di gioia e tristezza, di passione e di quiete, allora il gusto si è, allora, educato alla felicità dell’assaporare il dolce, il salato, l’aspro attraverso l’amaro. Era giocoforza con simili premesse che, quando fu ora di bere forte, il fernet eppoi l’amaro Udine diventassero dimostrazione di virilità. Distinzione tra maschi e femmine, ma soprattutto tra maschi, chè alle femmine qualche indulgenza protettiva bisognava pur darla. Questa sensazione d’amaro mi è rimasta, quasi fosse una coda dell’ottocento, il secolo di mia nonna, che si protendeva verso me/noi, nati dopo una guerra che aveva sovvertito il sentire e portato il dolce come gusto di massa. Una passione, ormai abbandonata per la distillazione, frutto dei malintesi anni chimici, ha più volte restaurato il tastar in punta di lingua per discernere alcool da sapore e mi fa sorridere pensare che la mia generazione preferiva gli amari senza dolci a mitigarli, quasi che l’amaro fosse bastevole al gusto e non emendabile perchè non aveva necessità nella sua purezza d’altro che se stesso.
Il dualismo amarodolce si ricompone ora, nella mia testa, a partire dal caffè che senza preferenza asseconda l’uso locale e la voglia personale: spesso molto dolce a sud, altrettanto spesso, a nord, in purezza per conservarne il gusto a lungo. Troppo facile usare il gusto come immagine della vita e del vivere, indebita la perifrasi, ma se non si vuole per forza fermarsi sulla soglia dei significati, se si vuol trovare l’assonanza tra l’estensione del gusto in ciò che lo descrive, non sembrerà arbitrario pensare che l’amaro, che vien prima, aiuta a trovare maggior gusto nel dolce ed a limitarlo nella sua eccellenza, senza farlo sconfinare in brodaglie bulimiche, prive di parola. Tale sarebbe la vita e il kairos che l’accompagna come misura, opportunità e rischio e camminar sul limes. Ma questa è altra storia, oltre il vaneggiamento della sera.
Tutti uguali, gli uomini, sempre in fuga, incapaci di decidere davvero, vocati a tenere il culo su più sedie.
Tutti uguali a raccontare a mezzo, a lasciar intendere, a dire ti amo al posto di ti voglio bene e dir ti voglio bene al posto di ti amo.
Tutti uguali con le loro superiorità di merda, con le abitudini incomprensibili, con il loro far star male noncurante, con il condividere banale.
Tutti uguali nel narcisismo affamato, nel fascino gettato con leggerezza bieca verso sorrisi gentili.
Tutti uguali nel dire:sei speciale, sei unica, non è mai stato così, pronti ad esibire sofferenze oscure: perdio come soffre a non amare più, come soffre.
Tutti uguali al 98% e quello speciale davvero è capitato a te? Ma fammi il piacere, và, fammi il piacere.
Tutti uguali, occhei e allora che si fa? Oltre a cercare di educarli all’amore, di conquistarli, tenerli, mutarli per renderli accettabili e carini, che si fa?
Una danza, una giarda tra l’esserci e il non esserci, tra l’inchino e lo sberleffo, tra il contatto promettente e la distanza. Ecco quello che si fa.
Chissà che volevi, mia cara ed invece, se va bene, hai un compagno di ballo, una terapia che aiuta a trovare i propri limiti e bellezze, che fa esercitare i sentimenti e il corpo. Una presenza che ti fa incazzare mentre fornisce dimensione al reale e al sogno, che fa soffrire e gioire, educa a capire e a dimenticare. Ma in realtà fai tutto tu.
E il bello è che lui non lo sa e continua imperterrito ad essere uguale.
Per fare il nostro uomo, non serve uno specialista, bensì un tipo curioso: uno che legga molto, che si lasci prendere in giro, ma non per i fondelli.
Uno che sappia quel che dice e non si impressioni per il ridicolo del nuovo, che ascolti molto e capiscaspesso. Uno che se non capisce non si arrende, presumendo di poter capire poi e sia ben conscio della propria ignoranza.
E’ la curiosità che lo spinge, la passione indifferente agli anni, che svaluta quanto accumulato, e rende prezioso il futuro.
Sorprende perchè il suo lavoro sembra interessante, ma lo è molto meno della vita e delle cose disparate che conosce.
E’ un mix, un prodotto dell’evoluzione, un deviante insofferente di un ruolo che sia un contenitore. E la laurea, lo studio, l’esperienza, i lavori non gli sono sufficienti per dire sono arrivato, anche perchè arrivo e partenza sono per lui la stessa moneta.
Così il cav ha esordito nel suo saluto alla nazione.
E’ stata una scelta di campo, e quando gli altri erano rossi io già ero nero. Per la cronaca ogni giorno mi abbronzo, e mi consentano, non si badi alle apparenze, sesono mezzo bianco e mezzo nero, è perchè lo faccio la notte durante le altre attività di governo. Quelle che ogni capo dovrebbe fare per mantenere alto il prestigio del paese.
Guardando l’immensa platea ha aggiunto:
E gioco a minibasket con gli amici. Anche voi dovete giocare a minibasket e fare come me che mi sono comprato tutte le squadre e i giocatori. Adesso tutti mi vogliono bene e mi passano la palla. E quando non me la passano me la porto via, la palla, perchè quelli che non mi fanno giocare come voglio, sono comunisti e guastano il gioco di squadra.
Un ex piazzista di obbligatresh tripla Aha intonato uno spiritual napowaste e come un sol uomo, gli astanti si sono alzati mettendo la mano sul portafoglio (non si sa mai con tutti i comunisti ancora in giro). Sui volti ancora pallidi, lacrime e sorrisi si mescolavano alle parole: Tu sei l’unto, madò come sei unto.
Il coro possente è stato ricamato dalle parole del cav: tutti, dico tutti, cominceremo ad abbronzarci nei campi di cotone, questo è l’orizzonte per questo paese, finalmente affrancato dall’istruzione, dal lavoro, dalla spesa quotidiana. E perchè no, anche dal trasporto aereo. Perchè voi siete già oltre il progresso e non avete un nero al comando, ma un capo che vi farà tutti neri.
Nelle prime file un ministro e un ex ministro applaudivano freneticamente dicendo: è tornato, sì è tornato.
C’è una mappa che emerge quando ci fermiamo a pensare a chi conta per guidare la vita: le presenze che non fanno abitudine, che ci guidano senza bisogno di alzare la voce. Vale per chi abbiamo vicino e ancor più per chi ha segnato i nostri anni. Foa era dalla parte in cui ero. Non era comunista, e in quegli anni il non esserlo, indicava una diversità non positiva, ma Lui era differente. Non tutti i socialisti erano uguali: Foa, Lombardi, De Martino, Lelio Basso, Terracini, Pertini, Bobbio, i G.L. e gli Azionisti, erano incarnazione di idee positive, con cui misurarsi senza paura. Erano loro avanti, mentre noi ci facevamo scudo con l’ideologia. E lo sapevamo. Di Foa c’è un libro scritto con il figlio, allora a sinistra, che parlava degli anni della costituente, dei primi governi repubblicani. Da queste case di periferia romana, costruite in cooperativa tra parlamentari d’opposizione, dove i figli dei nomi che riempivano i giornali e la storia della sinistra in Italia, giocavano tra pozze e erbe di confine, viene fuori la dimensione civile della politica. Idee ragionate, il discutere quotidiano nelle visite tra vicini, amicizie intense e intenzionali e l’immagine di una sera nella giornata ben vissuta. Sembra tutto così lontano, come se la passione civile, non abitasse più tra noi. Ma non è vero, non tutto è mercificato e la scena non è vuota, manca solo qualche intelligenza forte in grado di interpretarla. Per chi era giovane allora, gli uomini come Foa, Di Vittorio, Ingrao, Lama e molti, molti altri, hanno rappresentato ciò che poteva essere l’unione tra ragione e realtà: tutto era possibile, purchè ragionato, non stravagante o velleitario. La forza di convinzione che avevano le vite di queste persone, confermava la possibilità del cambiamento. L’ultima volta che ho visto Foa, pochi anni fa a Roma, da Gigetto al portico di Ottavia, era curvo, e piegava la testa a scrutarti dietro le sue lenti così spesse. Sentivi lo sguardo che voleva capire, mescolarsi con la forza del ragionare. Erano parole che si mettevano in fila, logiche e pacate, con l’estro che apriva finestre e mostrava il limite dei luoghi comuni. Per Lui come per altri, pochi, la disposizione all’ascolto è stata quella riservata al fratello maggiore. Non contavano gli anni perchè ai padri avevamo rinunciato, ma di fratelli c’era gran bisogno per capire la strada da fare. Nessuno poteva sollevarti dal compito di camminare, ma discutere su dove andare era indispensabile.
Come ora. Proprio come ora.
p.s. Chissà perchè ancora una volta Ferrara non ha colto la bellezza del silenzio che rende più nobili. Quando una vita è bella e piena come quella di Foa, la morte non è triste, ma sono i necrologi e la voglia di distinguersi che fanno scrollare il capo sconsolati. C’è ancora bisogno di nuovo e di vecchia eleganza insieme, speriamo arrivi presto.
I fatti sono semplici: un uomo muore nel letto dell’amante, questa, disperata, chiama soccorsi, constatato il decesso la polizia avvisa la famiglia. Arriva la moglie, accompagnata da un fratello e dal figlio. Scoppia la rissa.