dovremmo

Dovremmo impedire che il terrore diventi storia e cessi d’essere esperienza. Dovremmo conservare l’orrore assieme alla pietà. Dovremmo tenere la razionalità per discernere, assieme al sentimento per compatire. Dovremmo avere chiari dei principi che non possono essere toccati, mediati, contrattati: il rispetto della vita anzitutto. Dovremmo parlare con serenità di ciò che è accaduto perché intero il dolore faccia il suo corso. Dovremmo riflettere che ci furono assassini, complici, conniventi, consenzienti, indifferenti. Dovremmo capire che ogni cosa avviene se non la si impedisce. Dovremmo pensare che ci riguarda ancora, che ci riguarderà, che non fu follia, ma uomini come noi fecero – o non fecero – l’orrore. Dovremmo pensare a ciò che differenziò i comportamenti, perché lì si trova una speranza. Dovremmo pensare che non ci sono giorni per pensare, non ci sono luoghi da vedere, non ci sono pagine da leggere, se questo non ci cambia nel profondo.

Dovremmo, e già la parola si corrompe, diventa fatica quotidiana, difficile; c’è quel dovere che pesa come se pesasse la pratica del giusto, del dover essere uomini. Non è forse più facile pensare che sia cosa che accadde, che altri furono gli uomini, che i fatti e il caso hanno una relazione forte per cui, in una congiuntura triste, ci fu un tempo, dei luoghi, persone che non siamo noi. Non è forse più facile osservare l’orrore come in fosse un acquario, cosicché, distogliendo lo sguardo, esso cessi di disturbare. Non è forse più semplice amare una persona, una storia triste, un gesto eroico, anziché pensare che erano moltitudine, come noi, con le loro differenze e miserie, e che furono isolati, resi singoli, togliendo la solidarietà finché la normalità dell’orrore divenne abitudine quotidiana. Non è forse più semplice pensare che un vaccino terribile è stato inoculato e che non accadrà più? Ve lo dico serenamente, è più facile pensare così, per arginare il pensiero che possa riaccadere, ma accade continuamente e solo gli uomini possono fermare gli uomini se non si girano dall’altra parte. 

la shoah raccontata ai bambini

E’ un tema vecchio e sempre attuale: come raccontare l’orrore ai bambini?

Ciò che accadde, e in altri contesti accade ancora, può essere spiegato con esattezza, mostrato nelle fotografie, legato a una qualche esperienza sensibile che lo faccia diventare reale a un bambino ancora piccolo? Perché un rischio grande, è che la vicenda terribile della shoah diventi una favola, una cosa priva di realtà e così sia il contrario della memoria, perdendo la sua funzione di insegnamento e guida. Ma anche nel caso in cui tutto l’orrore diventi reale e i fatti sentiti come accaduti, quale può essere l’effetto di questo racconto?

Lo storico francese Georges Bensoussan  qualche giorno fa affermava su ” la stampa ” che  “non si può insegnare la shoah ai bambini, non si può mostrare loro Treblinka. Perché è una memoria troppo pesante, troppo dura da portare e finisce per colpevolizzarli”.

Non so se sia l’unica risposta, di certo è un pericolo reale e i bambini col senso di colpa hanno consuetudine, ma molti libri e film, riportano una risposta diversa alla domanda se insegnare o meno la shoah, e credo che ognuno dovrebbe pensarci e trovare la sua risposta; se questo è per lui un tema importante dell’insegnamento a vivere. Non si è sempre parlato molto di ciò che accadde durante e prima della guerra, gli anni immediatamente seguenti ai ’40 furono a scuola, parchi di notizie su quanto era avvenuto. Non ne sentii mai parlare alle elementari e così la shoah vera l’ho appresa dalle fotografie di un libro di Pietro Caleffi e Albe Steiner, Pensaci uomo, quando ero già grandino e comunque fu per mia scelta. In famiglia parlavano di questa tragedia, ma più attraverso la costernazione del fatto che molte persone conosciute non fossero tornate dai campi di sterminio, che per la sua dimensione immane di tragedia umana collettiva. E dei bambini dei campi si parlava comunque poco, come fossero stati una conseguenza agghiacciante, della decisione di uccidere tutti, non un orrore nell’orrore.

Certo che le parole che usiamo noi adulti, hanno un significato molto diverso per i bambini, anche le fotografie vengono vissute diversamente, quindi il processo del condividere non è facile, però si può, e si deve, affrontare, considerarlo come un’ insegnamento fondamentale sui pericoli che ci portiamo dietro e che non sono solo in una parte malata dell’intelligenza o un prodotto della pazzia di qualcuno, ma che possono sorgere da persone insospettabili, intelligenti, acculturate e diventare follia collettiva, non un raptus di pochi. Quindi è un pericolo da trasmettere e un tema, a mio avviso, da risolvere. Nei bambini bisognerebbe ricordarsi che il percorso con loro è apprendimento comune, e che vedere e sentire come la realtà si trasfigura in loro, riemergendo dalle loro parole è insegnamento per noi, per adeguarci e capire cosa significhi maneggiare la storia. 

Mio figlio, vide da bambino a Praga i disegni  dei bimbi di Terezin, non chiese troppe cose, ma gli fu risposto. Quei disegni erano terribili più per noi adulti che per un bambino. Aggiungemmo qualcosa, seguendo la curiosità. La mia idea, di allora e di adesso, è che bisogna rispondere alle domande dei bambini, in questo caso, come negli altri. E approfittare del molto che esiste per non dimenticare. Certo, bisogna che quanto accadde sia importante anche per noi, e non è così scontato, perché non poco di quanto si agita negativamente al mondo, è parte ancora del problema irrisolto dell’intolleranza e del rifiuto della diversità. Forse anche per questo è importante parlare della shoah ai bambini e assieme a questa di altre stragi che ci furono e continuano, perché se rifiuteranno l’intolleranza e il razzismo, il loro mondo sarà migliore del nostro.

p.s. aggiungo l’intervista di Bensoussan alla Stampa, è una riflessione che suscita domande, non solo per l’autorevolezza di chi studia da una vita la shoah, ma per la necessità che ognuno, sensibile al tema, dia una sua risposta:

Saturazione della memoria:
Alberto Mattioli – ” Non si può insegnare la Shoah ai bambini “

Georges Bensoussan, Storia della Shoah, ed. Giuntina

Storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi, Georges Bensoussan è l’autore di una sintetica ma assai ben fatta Storia della Shoah che La Giuntina ha appena tradotto e pubblicato in Italia (pp. 168, € 12).

Professore, il 27 è la Giornata della Memoria.

«È importante celebrarla.
Ma bisogna avere ben chiaro che in realtà l’Unione Europea l’ha istituita per celebrare la rifondazione dell’Europa.
L’unità europea è stata costruita sull’antinazismo e il simbolo del nazismo, ciò che lo differenzia dall’altro grande totalitarismo, il comunismo, è appunto la Shoah.
È la Giornata della Memoria europea, non ebrea.
È l’Europa dei lumi contro la notte della ragione».

Sulla memoria, la Francia ha ancora del lavoro da fare?

«L’idea della complicità di Vichy, dunque dello Stato francese, è recente.
Nel ’73 fu uno storico americano, Robert Paxton, a pubblicare i primi studi sull’argomento.
Ormai la tradizionale visione binaria Resistenza-collaborazionismo non regge più. In mezzo c’è una vasta zona grigia.
All’inizio della persecuzione, la maggioranza dei francesi, e le élite in particolare, non protestarono affatto.
Anche se è difficile valutare l’evoluzione dell’opinione pubblica in un regime dittatoriale, la svolta avvenne nel 1942 quando iniziarono le rafles , le retate.
La caccia all’ebreo indignò molti francesi.
Ma, in generale, è sbagliato avere una visione monocolore.
La Francia non è stata solo Vichy e non è stata solo la Resistenza.
E per fortuna circa tre quarti degli ebrei francesi si sono salvati».

Perché?

«Intanto perché la Francia è grande e fatta anche di foreste e di montagne.
E poi non dimentichiamoci che la Francia del Sud, la cosiddetta zona libera, fu occupata solo per venti mesi.
Infine, parte di questa zona fu occupata dagli italiani.
I documenti tedeschi sono pieni di lamentele contro gli italiani che proteggono gli ebrei e addirittura li sottraggono alle retate della polizia francese».
Lei ha polemizzato con Nicolas Sarkozy che aveva proposto che ogni bimbo francese ricostruisse la storia di un bimbo ebreo deportato.

«Semplicemente, da storico ho fatto presente che l’idea era benintenzionata ma assurda.
Non si può insegnare la Shoah ai bambini, non si può mostrare loro Treblinka.
Perché è una memoria troppo pesante, troppo dura da portare e finisce per colpevolizzarli.
Si può, anzi si deve, insegnare loro cosa c’è intorno alla Shoah, cosa sono il razzismo o l’intolleranza.
Alle elementari puoi parlare di Anna Frank. Delle camere a gas, no».

Sulla memoria, c’è qualcosa che si potrebbe fare e non si fa?

«Forse avere ben presente che, dal punto di vista storico, la memoria è una trappola.
La memoria non è la storia, è una religione.
E non serve a ricordare, ma a dimenticare, perché è fatalmente selettiva.
Per questo lo storico è disincantato e deve esserlo.
Mi spiego con un esempio che non c’entra con la Shoah.
Nel 1985 furono ricordati con grande riprovazione i 300 anni della revoca dell’editto di Nantes, quello che aveva concesso agli ugonotti la libertà di culto.
Tre anni dopo, lessi il Code noir , cioè l’insieme delle leggi che regolavano la schiavitù nelle colonie francesi.
Bene.
Sa in che anno Luigi XIV l’aveva promulgato?
Nel 1685.
Solo che il suo terzo centenario non l’aveva ricordato nessuno».
Insomma, della Shoah si parla troppo?

«Se ne parla troppo perché se ne parla male.
Cioè se ne parla in maniera compassionevole per le vittime, mentre la Shoah è un’enorme questione politica e antropologica.
Politica, perché pone il problema di come un popolo civilizzato abbia scientemente deciso di eliminarne un altro.
Antropologica, perché rappresenta una cesura, una rottura nella civiltà occidentale.
Lo capirono per primi certi intellettuali cattolici del dopoguerra, come Maritain, Claudel o Julien Green.
Poi il tema è stato ripreso dagli Anni 70 con uno studio della Shoah che si è giovato di nuovi strumenti, per esempio la psicanalisi».

Ma a livello mediatico, lei dice, è troppo presente.

«C’è una saturazione della memoria. Il discorso sulla Shoah, sui giornali, nei film, in televisione, è talmente invadente e basato soltanto sul pathos da diventare banalizzante.
La nostra è una società compassionevole, dove lo status di vittima è quello più ambito.
Dunque ognuno vuole avere la sua Shoah.
E Auschwitz viene continuamente evocato per situazioni completamente diverse.
Fino al paradosso di paragonare sulla questione palestinese i nazisti di ieri agli israeliani di oggi, che è una bestialità».

Ultima domanda e anche personale. La Shoah non è un soggetto troppo duro per dedicarle la vita intera?

«È sicuramente un soggetto sconvolgente.
Ci si salva con un humour nero che per i non addetti ai lavori potrebbe risultare scandaloso, politicamente molto poco corretto.
È lo stesso che hanno i medici o chi è tutto il giorno e tutti i giorni alle prese con la sofferenza.
Però vivere quotidianamente a contatto con la Shoah ti rende anche molto acuto sulla realtà di oggi.
Ti si drizzano le antenne, stai più attento a quel che senti.
E capisci che le parole sono sempre la prima tappa della tragedia».

Alberto Mattioli
«Non si può insegnare la Shoah ai bambini »
l’intervista di Alberto Mattioli a Georges Bensoussan
La Stampa 22 gennaio 2013