ritratto

In quella foto ci sono mesi di privazioni, anni di disciplina. Chirurgia estetica della mente per assomigliare, per tendere ad essere altro. Una costruzione/decostruzione di quello che la natura applicata all’ambiente non avrebbe fatto e così il viso si è scavato, eppure c’era abbondanza di cibo, le spalle si sono raddrizzate, anche se non c’erano pesi da portare, l’incedere è una perenne ricerca di equilibrio che non ha bisogno della corsa. Il capo si è portato indietro e il bacino in avanti, anche se non c’è alcuna gravidanza e il ventre è piatto. La morbidezza contro le carestie passate si è risolta in linee nette, tutto converge in una coincidenza tra desiderio e dover essere.

Cosciente dello scatto, la posa si è resa vigile per la ricerca d’attenzione. Il tratto assume un’ espressione ammorbidita, forse gli è stato suggerito qualcosa. Non è un selfie, è un ritratto voluto, accettato, forse desiderato, ma fatto da altri che vogliono solo l’immagine e così è emersa la summa della ricerca precedente attuata su quel corpo. Accade sempre che ci sia il tutto in una posa, però è totalità che appare, ed è ben differente dal viso distratto, dal corpo fermato in una posa che seguiva altro. Nei corpi senza intenzione emerge ciò che c’è sotto, un dialogo complesso che include tutto ciò che è stato mutato, ma non sono soli, mentre in un ritratto c’è una solitudine grande, grandissima. Se questo rappresenta solo il soggetto, viene lasciato in una stanza di dubbi, ogni parola lo modifica, c’è qualcosa che vorrebbe uscire ma gli viene impedito. E questo dovrebbe essere colto e poi mostrato, in una comunicazione senza asperità, che offre e non porta via.