per sempre

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D’estate gli assoluti impallidiscono, forse votati più alle stagioni fredde, al bisogno di calore. C’è difficoltà a raccogliersi, a meditare su di sé, d’estate, e già questo dovrebbe dar misura del relativo e far pensare che si passa attraverso le stagioni della vita portandoci appresso noi stessi, metereopatici anzitutto.

Vedere il lieve ridicolo degli assoluti, il disagio d’averli praticati, seppur con ritegno, e sentire che il relativo è una conquista che supera il giovanile (e immemore a breve) slancio, tutto questo non è senile disincanto ma consapevolezza. Infatti nel quotidiano, nella conferma di ciò che si sente, alberga la fatica gioiosa dell’evolvere contrapposta al conservare.

Ci sono giorni, nel vivere, in cui l’assoluto diventa colpa e gabbia, ricerca insostenibile di una perfezione inutile perché oltrepassa il reale, il vero, la natura Scordando che questa è di per se stessa è evolvente e instabile, ma conserva una fedeltà a sé per riconoscersi e non più. E in quei giorni ci si aggrappa a relitti senza naufragio, ché importante è tenersi a galla, e questo è vitale in quei giorni, ma per poi imparare a nuotare. E sono quelli i giorni in cui, anziché aggrapparci al primo punto apparentemente solido che è in noi, ne dovremmo guardare la verità, immergerci e così tornare a noi, non restare sulla superficie di qualcosa che ci ostiniamo pensare diverso da ciò che è.

Ma bisogna pur vivere, avere certezze, alimentarci di esse, basta saperlo e capire che praticare l’assoluto è fatica che può diventare immane, che nulla ha sempre lo stesso significato, che ciò che vive, muta, e nel cambiare trova nuove ragioni. E’ così ridicolo il compromesso, l’acuto di chi si vuol difendere dalla propria paura, che dice per sempre e pratica il per adesso. Una differenza ostentata per avere maggiore sicurezza, per ottundere la coscienza, che tutto è davvero così normale, prevedibile, ripetuto se non accettiamo il mutamento. Come le storie dei libri in cui ci si riconosce, e dove, anziché inorridire delle vite fotocopia, non se ne ha timore, anzi si è contenti perché assomigliamo. Vite standard che puntano su trasgressioni senza gloria, timori e assoluti per reggere la visione del vivere proprio già consumato e privo d’orizzonte.

Camminare su di se’ per andare oltre, sentire e dire che ciò che ci accade e’ meraviglioso e si ripeterà ma non per abitudine e sarà comunque diverso. E’ fatica praticare gli assoluti e arrivare ad essi attraverso i relativi, forse è più facile a chi ha vissuto, non anni, ma vita. Per chi sa di non sapere eppure conserva come conoscenza la distanza per vedersi, per guardarsi dentro. Senza timore, affrontando anche l’insicurezza che ogni sentimento o relazione procura.

 

il mito dell’autosufficienza

Non essere d’altri che di te stesso.

E’ un imperativo della libertà, del non essere servi di qualcosa, di qualcuno. Da qui comincia il bisogno di libertà, l’essere con altri e il bastarsi. Il servire è un dono, un dare, un essere aperti all’altro. C’è un profondo amore ed anarchia in tutto questo non sentirsi appartenenti se non a sé eppure darsi. Non bastarsi. Mi fermerei su questo non bastarsi – e per questo darsi –  come gesto naturale che ha risolto, almeno in piccola parte il problema della solitudine. Il mito dell’autosufficienza attuale è ben diverso, punta sulla capacità dell’individuo di prevalere sugli altri, genera una solitudine da potere e quando il potere non è raggiunto alla solitudine si aggiunge il fallimento personale. In azienda, nella società, si insegna la competizione esasperata, non il darsi liberamente all’altro e la solidarietà del gruppo coltivando l’autosufficienza. Da questo insegnamento proviene una doppia conseguenza: una solitudine non scelta e crescente delle persone e un’ autosufficienza fasulla, visto che porta con sé la disperazione.

L’autosufficienza vera è quella che intraprende il viaggio verso la scoperta del sé totale, della propria diversità nell’eguaglianza, perché proprio nel riconoscere in cosa si è eguali si vede ciò che è unico in noi. E come ogni viaggio vero, questo scendere nella nostra autosufficienza apre, fornisce una dimensione, assume un criterio profondo di giusto e ingiusto, trova la giusta distanza, esercita l’autoironia per vedersi.