Beethoven in galera

Per qualche anno la mia azienda, regalò dei concerti di musica classica alla città. Era un modo per dividere, con i cittadini, una parte dell’utile del nostro lavoro. L’esperienza fu bella e particolare, tanto da scordare la fatica dell’organizzazione. E vi posso assicurare che regalare qualcosa, non è facile. Di questi concerti esistono le registrazioni e l’edizione su cd, ma di uno esiste solo una copia del filmato. Vorrei parlare proprio di questo.

Il solista era un giovane pianista russo, Evgheny Brakhman, vincitore di importanti concorsi internazionali. Un virtuoso di talento. Doveva fare tre concerti con noi.  Chiedendo aiuto per l’organizzazione, emerse una possibilità: un concerto in penitenziario. Per fare queste cose occorre una buona dose d’incoscienza, ovvero affrontare i problemi man mano si presentano. Noi avevamo l’incoscienza; chi ci aveva fatto la proposta era una cooperativa che lavorava con i detenuti, loro si preoccuparono dei permessi. Noi del resto. Tralascio spiegare cosa significhi portare un pianoforte da concerto in un carcere, comunque si arrivò al giorno.

Era pomeriggio, un sole caldo di maggio. Noi, gli esterni, eravamo una dozzina. Controlli, corridoi, rumore di cancelli che si chiudevano alle spalle. Ma mano si procedeva, si entrava nel ventre d’un animale che viveva, digeriva, graffiava la pietra per rifarsi le unghie. Ma erano i suoni che accompagnavano, i clangori del metallo, i passi, il silenzio fatto di strisce di rumore parallele e noi, alieni, che ci muovevamo in un mondo messo da parte.

La sala era un piccolo anfiteatro, il pianoforte al centro, poi gradinate di cemento fino alle finestre a sbarre in alto. Sedemmo in prima fila, intorno c’era il vuoto. Evgheny era andato a mettere l’abito da sera. Ricordo il tono dei discorsi, qualche parola imbarazzata come i risolini che alleggerivano la tensione d’essere in posto rimosso dalla testa. Il capo delle guardie spiegò che nessun detenuto era obbligato a venire, avevano parlato della possibilità il giorno prima, durante il pranzo. Poteva non arrivare nessuno. E invece poco per volta la sala si riempì. Circa un centinaio di detenuti presero posto. L’attesa sembrava importante più per noi che per loro, che chiaccheravano tra loro. In più lingue e dialetti, la sala era piena di voci. Quando entrò Evgheny calò il silenzio. Di colpo. 

Da quel momento il suono e il silenzio cominciarono a dialogare. Il tempo e la vita altrove erano in quella sala, riuniti in qualcosa che apparteneva al mondo esterno, ma era lì, condiviso come accade in una sala da concerto. Quando si ascolta musica a teatro, ognuno prova sensazioni proprie, eppure l’unità della sala si ricongiunge sul palcoscenico, un cono d’attrazione che preme e riceve dal concertista. Ebbene la stessa magia dell’uno e dei tanti si era riprodotta nella sala del carcere. Il programma non era ridotto, era un normale concerto in due tempi. L’ultimo pezzo era la tempesta di Beethoven. Ero un po’ preoccupato per la qualità dell’accordatura del piano, per la temperatura, per la difficoltà e l’emozione che doveva emergere. Ebbene, non ho mai sentito Brakhman suonare, con tanta determinazione e chiarezza. Alla fine ci fu un silenzio che seguì l’ultima nota e poi l’esplosione dell’applauso. Lungo, forte, con richieste di bis, e persone che scendevano dalle gradinate e attorniavano il pianista in piedi, e lo toccavano, volevano abbracciarlo. Le guardie erano preoccupate, dividevano, allontavano. Venne presa la decisione di riportare i detenuti in cella per sicurezza e così avvenne. 

Mentre uscivano, ascoltavo i commenti, i bravo detti a voce normale, come fosse uno di casa, le domande sulla provenienza del concertista e chi sapeva dov’era Gorki, lo diceva al vicino. Finché, improvvise, alla fine, un fiotto di parole in russo. Chi parlava era un signore sui 50 anni, alle mie spalle. E iniziò uno scambio di sorrisi e risposte che s’incrociavano, la commozione di una lingua comune, fino ad una stretta di mano che sembrava un abbraccio. Le guardie li divisero immediatamente. L’anfiteatro ormai era vuoto, conteneva solo noi. Gli esterni. Evgheny sedette, e suonò un pezzo breve: Traumerei. Era un bis  senza pubblico, anche noi eravamo in più. Era solo per l’emozione sua, per il cuore. Per questo il nostro applauso, alla fine, suonò senz’ eco.

Uscimmo in silenzio, sembrava una consegna concordata ed invece era l’emozione che durava. Dopo l’ultimo cancello i rumori, le luci, le auto, la città.

Come un risveglio nella sera.

p.s.uscendo  ho chiesto ad Evgheny se era emozionato e dell’esecuzione che ne diceva, mi rispose: emozionato? davvero tanto e  la tempesta, stasera, spero di suonarla  come oggi.

Non la suonò allo stesso modo, l’esecuzione fu meno emotiva e carica di forza. Come se una parte della forza del pomeriggio fosse stata spesa definitivamente.

I detenuti avevano avuto il meglio per un’ora, e non mi sono mai pentito che così fosse stato.

è iniziata la scuola

Da qualche giorno il traffico è aumentato, le rotatorie si saturano più in fretta. Basta metterlo in conto. Stamattina mi sono scoperto a guardare i fiori spontanei lungo l’argine, l’acquazzone di ieri li aveva lavati. Anche l’erba era brillante, alta e grassa, di quel verde giusto e irriproducibile, che non si vedeva da tempo. Un regalo per gli occhi.

Il traffico aiuta a perdersi nei pensieri. Noi guidiamo come camminiamo: automaticamente. E da quando è iniziata la scuola, come ogni anno, tutto va a rilento. Non ne capisco bene il motivo, ma ne accetto gli effetti. La mia scuola era in centro, dopo i primi anni, si andava soli. A piedi da casa. Ed era una conquista grande. I ricordi altrui annoiano, stamattina ci pensavo finché guardando il canale, le rive, l’erba. Di quegli anni mi resta molto, ma è cosa mia. Sfumature e lacche di ricordo. Ma riassumendo all’essenza, mi resterebbe il profumo di legno di cedro delle matite, l’odore buono di carta e d’ inchiostro che porto ancora con me, nelle passioni inconsulte per lo scrivere, in un certo modo e con certi mezzi. Resterebbe il buco, fatto con una gomma, in una delle ultime pagine rimaste in un quaderno, dopo aver strappato lo strappabile. Era quella maledetta parola che non veniva giusta: celo, e in quel cielo senza la i, ho versato tutte le lacrime che avevo. Resterebbe il profumo e la consistenza dei libri nuovi, che sembravano così belli e pieni di parole, giuste giuste da leggere. Ma passava prestissimo la foga d’imparare e restavano i ceffoni conseguenti.

Questo e molto d’altro resta. Intanto il traffico è sempre lento. Arriverò in ritardo anche oggi, è iniziata la scuola, capiranno.

la formazione

Finché parlavo, con distratta solennità della mia formazione, citando maestri e compagni, oppure, sinteticamente dicevo: “sa, di formazione sono un chimico e poi un sociologo”, mi veniva da ridere. Non era vero niente, non mi ero formato, l’avevo fatta franca. Solo ad ingegneria, non l’avevo fatta franca, la abbandonai, come una donna che costringe, al quinto anno, per fortuna di entrambi, ma poi (esiste il contrappasso), mi sono ritrovato a fare un lavoro da ingegnere, con ingegneri che capivano poco e avevano, fortunatamente, molta formazione. Costretto a dire ogni volta: guardi, non sono ingegnere..

Quando mi ero posto il problema della formazione (tardi, molto tardi), il dilemma era stato: posso colmare le mie lacune oppure mi dedico ad altro? Mi dedicai ad altro.

Dal gruppo di intelligenze vivide che eravamo, la vita ci ha diviso ed unito, ma con entusiasmo, siamo andati verso...

no, troppo pretenzioso sembriamo il gruppo di via Panisperna.

Del gruppo di sciammannati, copiatori di compiti e scansafatiche, alla fine ognuno ha vissuto e molti ce l’hanno fatta.

Neppure questo va bene, anche se è più vicino alla verità. Gli intelligenti, nel gruppo, si capiva chi erano, ma non ho mai capito chi davvero facesse i compiti da copiare, ed escludendo l’intervento della divinità, tra noi, un traditore dell’ignoranza, c’era.

Riproviamo:

Del gruppo di ragazzi pieni di speranze, zeppi di fantasie, discretamente arrapati ed insoddisfatti, sognatori in cerca di posto fisso in cui dare il meglio di sé, ovvero oziare e fancazziare, costretti, non per indole o per scelta, comunque a frequentarsi, si sarebbe potuto dire molto. Partendo, ad esempio, dalla necessità di un maggior uso di sapone allo zolfo, e dal miglior uso della giovinezza e del sesso. Ma non era questo che si sarebbe proiettato sul loro futuro, in realtà, ciò che sarebbe emerso nella vita era, il tragico, enorme, sbilancio tra aspettative e pratica possibilità di realizzarle. Insomma quella compagnia di sodali, avrebbe voluto fare molto, come singoli e come gruppo, ma le risorse messe in campo erano drasticamente limitate. Per censo, attitudini, composizione di desideri, obbiettivi. Avrebbe dovuto sopperire la formazione, ma qui faceva aggio la mancanza di una rigorosa disciplina calvinista: eravamo tutti cattolici in prossimità d’ateismo, credevamo nella salvazione e non nelle opere. Qualcun altro ci avrebbe riempito l’intelligenza residua, dopo il gioco di vivere, con quella formazione che suonava così bene dirla in un college inglese e così strana da noi, che al massimo avremmo diretto un reparto di fabbrica. Per dirla brevemente, molti di noi tentarono di vendere l’anima al diavolo in cambio di un minimo di onniscenza per colmare i buchi cognitivi accumulati, ma eravamo tanto poco promettenti, che nessuno rispose.

Fu così che, piano piano, maturò singolarmente, e con una strana concordanza, anche nel gruppo (strano litigavamo su tutto), l’idea  che la formazione, il sapere fatto di nozioni, accademico, era un impedimento alla libera crescita dell’individuo. Che codificando regole ed apprendere, si impediva alla fantasia e all’ingegno di stiracchiarsi dopo il lungo sonno, alzarsi con calma, prendere il caffè dell’ottimismo della volontà e poi, trionfalmente uscire nella vita, per piegarla, plasmarla, condurla verso il nuovo. Era tutto così naturale da essere inscritto nel nostro dna, e quindi perfettamente confacente all’uomo (noi eravamo l’uomo), alla sua crescita, alla sua felicità. Anche economica. Ci preparavamo duramente studiando altro, interessandoci d’altro, facendo altro. Questo gruppo, e i singoli, poteva aspirare a guidare qualsiasi cosa, era scevro di legacci, pronto all’entusiasmo ed all’azione, ma anche meditativo, quanto basta, per non aver voglia di far nulla. Una masnada di leoni (avete mai visto i leoni, non fanno nulla se non hanno fame, sono consci di sé e basta) con una  diversa fame di sapere. Ed effettivamente si studiava tutt’altro, rispetto al programma scolastico, chi azzardava lingue morte medio orientali, chi si dilettava di filosofia, altri di discipline tecnico motoristiche, tutto andava bene, purché al di fuori del normale corso di studi e vicino all’estro personale. Fosse il teatro nò, oppure il cinema canadese d’avanguardia, l’hi fi costruito in casa, la musica dei trovatori tardo provenzali, la letteratura di fantascienza sovietica. Qualunque cosa era più interessante di quelle banalità scolastiche (si pensava facilmente recuperabili), che insegnanti stanchi ci impartivano. La formazione discussa nell’etimo e nelle fondamenta, per poter davvero dire: mi sono formato. Dove, in cosa? Che domande banali: mi sono formato, adesso compratemi così come sono, se ci riuscite.

E mancava ancora tempo al ’68, leggevo Quindici, andavamo alle mostre di pittura contemporanea per guardare e fare domande intelligenti, del tipo: ma tu l’acrilico lo dai di polpastrello? ed ascoltare risposte infarcite di cioè, fumo e colpi di tosse, mangiare al rinfresco, per poi sghignazzare in osteria.

Il mio compagno di banco, copiava da me, prendeva voti migliori, dormiva fino alle 10 in classe, poi tirava fuori un panino di frittata con la cipolla e faceva colazione. A volte si riaddormentava, ma il pomeriggio giocava a biliardo da dio, voleva diventare giocatore professionista, mi raccontava del mondo suo ed io del mio. Il giorno dopo, bruciavamo assieme, per compiti e per noia, si studiava l’ultimo mese dell’anno. Non hanno capito niente, l’hanno bocciato. E’ diventato presidente della Parmalat spagnola, girava in Ferrari e, ho controllato, non era tra gli indagati. Altri, più conformisti, hanno fatto aziende, soldi, sono diventati professori, ricercatori, professionisti, politici. Hanno cercato posti fissi e sonnolenti, oppure cavalcato onde di intuizione, fatto e sfasciato famiglie, patrimoni, speranze, delusioni.

Nel gruppo di ragazzi che eravamo la formazione ha contato tantissimo, l’abbiamo evitata, ci siamo misurati, abbiamo acquisito dimestichezza con l’ignoranza, insomma, siamo figli di quella formazione.

Ringraziamenti.

Titoli di coda.

Musica. 

maggio e l’assoluto

Guardavo i cavédani mangiare le barbe di pioppo sul pelo dell’acqua. Vedevo controluce il guizzo argento diventare dorato di sole e poi sparire un attimo, prima di tornare di nuovo. Senza fretta, in equilibrio di luce, d’aria e di voci con me che guardavo dai gradini sull’acqua. Tutto fuori dal tempo, solo esistere.

E pensavo fosse assoluto.

Assoluto che i pesci si cibassero di niente d’alberi e ragni d’acqua, che quello che mi veniva detto, in quelle aule vicine al fiume, fosse vero, che l’assoluto fosse ovunque. Sparso attorno a noi a piene mani con il ribollire del cambiamento. Assoluto e mutazione, assieme, senza contraddizione, perché tutto fluiva, si rivolgeva di pancia e poi nuovamente pinnava via. 

Tutto possibile. Tutto a disposizione. Bastava allungare lo sguardo, la mano, il cuore e poi cogliere assieme il futuro.

 

Bobby Sands

Spesso parlando di una persona morta giovane, si dice quanti anni avrebbe ora. Bobby Sands, ha ancora 27 anni. Li aveva il 5 maggio 1981 e li avrà per sempre, almeno finché qualcuno si ricorderà di lui, in Irlanda o altrove. Allora, come adesso, accade che la forza di un ideale, di un sopruso patito, cancelli l’età, renda così alta la testimonianza che non saranno necessari altri messaggi per rendere evidente l’ingiustizia. Era accaduto ed accade, penso alla mia generazione, con i morti di Reggio Emilia, con Jan Palack a Praga, a Parigi e a Berlino nel ’68, ma anche con i bonzi che si davano fuoco a Saigon e in Cambogia, con i giovani a Teheran prima e dopo la rivoluzione, in Palestina, a Pechino, e potrei continuare verso il Cairo, la Tunisia e la Libia di questi giorni. Una scia giovane di scelte che trascinano i popoli e cambiano gli stati. Non importa in quanto tempo, ma rimuovono la gora dell’acquiescienza, rendono evidenti i problemi. 

Bobby Sands morì dopo 66 giorni di sciopero della fame, e dopo di lui morirono altri 9 militanti dei due movimenti irredentisti dell’ Ulster, tutti detenuti negli H-Blocks del carcere di Long Kesh. Bobby era deputato al parlamento britannico da 25 giorni, il primo ministro inglese era Margaret Thatcher, né l’uno né l’altro cedettero, ma vinse Bobby. Difficile ricordare, cosa arrivò allora, in un mondo non ancora globalizzato, certamente quella che sembrava una questione importante, ma locale, divenne l’ennesima dimostrazione che lo scontro tra Davide e Golia era possibile e che il debole non era automaticamente vinto. Si disse, quello che sento ripetere ora per i movimenti nei paesi del mediterraneo, ovvero che si può opprimere il popolo per anni, addormentarne la rabbia, togliere la speranza del cambiamento, la cultura e la percezione del vero, ma alla fine il movimento tellurico si scatenerà, e ciò che era impossibile improvvisamente diverrà insufficiente.

Bobby Sands, non era l’incarnazione del bisogno di tutti, certamente non del pensiero dei protestanti, ma evidenziava un problema di oppressione. E lo faceva difendendo la dignità della propria idea di un’Irlanda unita. Aveva un percorso fatto da scelte forti, iniziate presto. Chissà quanto avrà pesato la Bloody Sunday di nove anni prima, su di Lui. Era giovane, ma non aveva età, nel senso che gli ideali e i principi straripano rispetto alla normalità delle vite. Non era un trascinatore, lo divenne perché non tornò indietro rispetto a ciò che riteneva giusto. Forse voleva parlare solo agli irlandesi e agli inglesi, in realtà parlò al mondo di allora, dicendo che la speranza di chi spinge in avanti la storia vince su chi bastona e uccide. E qualcuno di noi, che allora era giovane, amò la sua forza e fiducia. E anche Lui e la causa irlandese.

l’età dell’innocenza, ovvero libertà/decenza

Inevitabile che queste parole così parte della mia giovinezza, siano in mente. Dignità e liberazione sessuale allora, erano temi su cui si discuteva molto e riguardavano tutti, anche i farisei ed i benpensanti, coinvolgevano nella loro spinta egualitaria, prima le donne e poi maschi. Erano il paradigma dei tabù da rompere, la liberazione in cui collocare le persone, agenti/agiti, all’interno del quadro sociale. Decenza era sinonimo di dignità personale. Si leggevano Reich, Fromm, Lowen, si cercavano giustificazioni sufficienti per riconoscere che la morale pruriginosa e la repressione sessuale erano l’espressione del dominio sull’uomo. Si scopava in parità di genere, c’era ricerca del rapporto non del solo piacere. La decenza era il limite del non toccare la sensibilità/dignità dell’altro, era un nuovo costume paritario e soprattutto non cercava il consenso dei portatori di tabù, ovvero dell’autorità ecclesiastica.  Certo c’erano disastri emotivi, difficoltà enormi nell’equilibrio, nel dover comunque rinunciare a qualcosa per avere rapporti alti, profondamente coinvolgenti. Troisi lo rappresenta bene nella normalità del ” ricomincio da tre”, ma adesso mi chiedo quanto distante sia quel tempo, sorta di statu nascendi dell’innocenza ritrovata, rispetto alla prevaricazione, all’uso degli altri, così ben definito dal termine di fruitore finale. Cos’abbia a che fare col sesso e con la sua forza il mito machista e giovanilista che viene proposto nelle cronache delle feste private (?) del premier. Qual’è il nesso con l’oggi? Perché la triade libertà/ decenza/dignità, è scomparsa dal lessico con significato univoco? Certamente non sotto una pressione libertaria, e neppure in nome di una nuova etica condivisa, è scomparsa sotto il più becero degli scopi, ovvero la propria soddisfazione usando il denaro e il potere. Quanto di più indecente si possa immaginare. Il primo reato da eliminare dovrebbe essere il reato di prostituzione ed inasprito quello di sfruttamento, perché il primo vende del proprio, il secondo fa mercimonio d’altri. Non mi chiedo perché la chiesa non parli, e al massimo, in ritardo, balbetti; la risposta è nella premessa: non è la schiavitù che fa paura, ma la libertà e in questa visione il potere gestisce la propria differenza, l’eccezione, il fate ciò che dico io posso fare quel che faccio. Non penso ad una età dell’innocenza di allora, non eravamo innocenti, ma c’era una tensione nel porsi domande, un de strutturare per trovare ciò che stava prima. E la decenza/ libertà era nel limite della dignità reciproca, nel sé che non usa altri.

 

le transumanze vegetali

Mentre tutto fuori ingialliva, l’aspidistra e le sorelle, non paghe d’un loro verde madido ed arrogante, proprio loro, si dovevano spostare. Dentro, fuori, ancora dentro, inseguendo l’ombra e le stagioni, l’acqua della pioggia e il mezzo sole.

Aiutavo mia madre trascinando vasi e vasche verso luoghi che avrebbero consentito alla vita di proseguire, di doppiare l’estate veleggiando trionfalmente nell’autunno. Poi il cammino si sarebbe invertito, con transumanze vegetali, per piante in vaso senza ambizioni eccessive. Come i canarini, anch’essi di giorno all’esterno, nella gabbia, ché della libertà non avrebbero saputo che farne e già al principio della notte, finivano al bujo per impedirgli di cantare. Dormire e cantare, come lavorare ed andare in vacanza. Non avevano bisogno d’ una vita nuova, di una libertà poco cercata e così piena di paure.

Le vite che avevo attorno, erano come quelle piante: si spostavano tra interno ed esterno, seguendo le stagioni. E tutto per conservare una vita già avvizzita nelle abitudini, senza crescita,  inesorabilmente spenta nei discorsi ripetuti.

Ma io potevo muovermi, restare in città d’estate, nuotare nel fiume, leggere, parlare e fumare di notte. La fatica dello spostarsi dalla transumanza dell’abitudine si sarebbe mutata nel brivido dello sconosciuto, del nuovo.

Iniziava allora, la vita da scegliere: dentro, fuori, mai immobile, finalmente libera dalle stagioni.

noi non ci sanremo

Sanremo è uno specchio di quella parte maggioritaria del paese che quelli come me si ostinano ad ignorare. C’è in noi la presunzione della superiorità del ragionamento sul numero, il contrario della democrazia, a cui ci pare di aderire. Ma questo non mi preoccupa più di tanto, perchè credo ci sia un determinismo nel voler essere minoranza, un tratto radical che stabilisce criteri di compensazione del tipo: critico e la giustezza di quello che penso alla fine vi contaminerà e cambierà. Se questo sia di per sè sufficiente, lo lascio alla meditazione di ciascuno. Ma, per restare a Sanremo, in fondo la miseria di ciò che viene proposto e che, sembra, tutti critichino sorridendo, i budget insultanti per chi non ha di che vivere, i lustrini sguaiati, il canta che ti passa, cosa muove in realtà? Nulla, occupa il tempo e dice che chi ha un problema se lo deve risolvere. Credo ci sia una grossa coincidenza tra l’immagine che questo paese ha di sè stesso e quello che gli viene offerto dalla politica. Per la presunzione di contaminazione sopra accennata, la cosa mi colpisce meno. E vedo come un traguardo di medio termine, quello della ripresa di dignità collettiva, della ri-appropriazione del maltolto in termini di speranza collettiva. Perchè è proprio la speranza collettiva che è stata demolita ed ognuno ora ha una sua speranza personale da far coincidere con quello che potrebbe essere, ma non è. Nei miei pensieri attempati, ho cercato di capire perchè, oltre la gioventù, mi manchi qualcosa. Perchè mi manchino Tenco, Gaber, la Sannia, Mia Martini, e perchè sia rassicurante la presenza di Vecchioni, Cammariere, Conte,  Finardi, De Gregori ecc. Mi è parso di scorgere la differenza tra chi ascoltava i Beatles e i Rolling Stones e trovava parole intelleggibili, di un versante italiano vicino alle cose che s’agitavano scomposte e chi per necessità, cerca solo altrove, per mancanza di offerta. Ci sono cose qui, appena fuori, confuse e contaminanti e inagite, eppure non provocano cortocircuiti felici. I vecchi sono patetici nei ricordi al presente, nulla è mai stato come si ricorda, ma la sensazione che una canzone tenesse assieme molti, mi resta. Sarà un’illusione, ma non mi rende infelice. E questo è quanto conta.

l’altra amapola

 

Amapola se n’è andata molti anni fa, portandosi il suo essere gatta, strana, pronta alla tenerezza e al graffio. Sarebbe stata un magnifico giornalista, presente ai fatti dell’orto cittadino e indolente verso il mondo che non la riguardava. E’ scomparsa come sanno fare i gatti, senza lasciare tracce fisiche, lasciando un ricordo pennellato di tempo, età, intonaci sbrecciati e case antiche, mai più abitate. 

Rimasto il nome ed il ricordo amoroso, non sapevo a chi attribuirlo. Così il tentativo di sovrapporlo ad una ragazza fallì senza appello, per incompatibilità di carattere. Chi poteva essere così strana da allevare un cane e ricordargli d’essere tanto gatta da cacciarlo dalla sua cuccia? In quegli anni in cui si discuteva moltissimo di liberazione, di amore libero e coppie aperte, Amapola rimase un’icona ed una semplificazione di pensiero: aiutava persino negli aneddoti.

Ma soprattutto, anche se non credo si possa usare il pronome possessivo per un gatto, è rimasta l’unica mia gatta di sesso femminile.