il puparo e lo cunto

Il teatro dei pupi staziona d’estate nel centro di Enna. Le rappresentazioni si alternano: il pomeriggio i ragazzi, la sera gli adulti. Le sedie sono di misura media, né grandi, né piccole in file ordinate, per non scontentare nessuno. Lo spettacolo finisce spesso all’ora di cena e la sapienza del puparo è preparare il lavoro del giorno successivo. Bisogna interrompere la storia dove più alta è la tensione e promettere che, chissà come, ma finirà. E i bambini, e gli adulti, che già sanno come andrà a finire, portano a casa lo cunto interrotto, cancellano il finale conosciuto, sperano e ricominciano a fantasticare. Il puparo li ha nelle sue mani, potrà mutare il prosieguo, magari di poco. Per creare l’illusione basta cambiare una battuta, spostarla, e guardare le bocche che sino ad un momento prima, sillabavano senza voce, già sconcertate e prese da nuovo interesse.

E’ la sorpresa che annuncia il cambiamento, e chiede d’essere pronti alla meraviglia. Dovremmo fare un parallelo con il vivere, dire che la vita ci interessa perché, se sappiamo come va a finire, le battute cambiano, e anche il discorso e gli esiti sembrano prendere un’altra piega.

Sarà che vorremmo cambiassero le storie, lo speriamo talmente tanto che ne immaginiamo diverse conclusioni, anziché lasciar fare alla vita. Ma per far questo bisogna diventare pupari, non pupi, non spettatori ed immaginare, immaginare, immaginare, finché l’immaginazione si consolida e si fa cunto.

Allora che sia vera o meno, per noi si fa realtà.

ri comporre

Ricomporre, ripeto la parola ad alta voce, ascolto il significato e il suono che è già legante. La sento come il mastice che rovescia la sindrome di Pandora.

Quanto è stato mobilitato in noi, per rompere un vaso stretto al suo contenuto e quanti equilibri sono, inopinatamente, finiti nella fornace dell’esperienza?

Ricomporre è la conquista dell’interezza, non di un’età dell’oro mai esistita, ma il rimettere assieme i pezzi che erano stati dispersi, ceduti ad altri, dimenticati. 

Ricomporre. Vedo un tavolo, di quelli da lavoro. Solido, grande, ed affidabile, allineo i pezzi che man mano si ritrovano e cominciano a dare idea dell’insieme.

C’è una sensazione bella, molto interiore: prendere in mano, saggiare gli incastri, sentire la solidità del combaciare, chiedersi dove sia finito quello che manca e ricordare. C’è una fisicità nel ricomporre interiore, il senso ulteriore che glorifica tutti gli altri sensi, che accarezza con i palmi le rotondità ritrovate e quelle nuove che si sono formate con l’esperienza.

Ricomporre l’esperienza ritrovandone la dolcezza del senso. Non velocità e consumo, ma essere di più, provare con la libertà della lentezza, la gioia della leggerezza.

Non manca nulla e il lavoro procede, qui un pensiero, lì un ricordo, qua un desiderio, ancora una pulsione che aveva spinto ad essere, fare, osare e che ora diventa legante per altro.

Ricomporre come opera alchemica che oltrepassa il tangibile e modifica chi la compie.

Ricomporre  per arare, seminare, e raccogliere con rispetto, equilibrio, gioia d’essere che si prolunga.