Ho deciso di attaccare seriamente la consistenza della mia cantina. Una collezione di vini che mi ha accompagnato come attenzione al buono in questi anni. Prima la cantina, poi seguirà altro. Fa parte della necessità di mutare abitudini, di tirare una riga. Non divento astemio, semplicemente più parco nell’accumulo. E il dividere con amici, pochi, quanto messo da parte, costituisce un ulteriore piacere. Non sempre è facile. Bere un buon vino al ristorante è un problema di portafoglio, quando si decide di berlo in casa, è un lavoro che investe tempo e amore per chi riceverà il cibo, la sua costruzione, la condivisione, e ciò che lo segue.
Per chi ha poco tempo, il rischio è la fretta, l’approssimazione, il negarsi il piacere di un tempo sospeso, oscillando tra le fatiche del prima e il dopo. Quindi per adesso mi concentro su una scelta compatibile. Minimalista e fatta di sapori, anche per gli amici scelgo molto, ma si eccede sempre così tanto, che lo star bene è un imperativo correlato alla qualità.
Questo è tirare una riga: sapere di aver tempo ed usarlo con lentezza. Assaporando.
Non troverete giudizi sui vini, il vino è al più un mezzo, non un fine. Non per me. Forse parlerò di passi avanti nel sentire, di cose che emergono nello stare assieme per il piacere di starci, del conoscere nuove persone. La riga è questa, stabilire un punto di partenza e poi andare avanti, senza troppi vincoli di passato.
Internet, i blog, sono luoghi a basso rischio, a parte la dipendenza e il ruolo di compensazione. Sono un utile allenamento ad altro. Lo scrivere, per chi lo considera importante, e’ fatto di una dimensione personale intima e di una dimensione esibizionista. Per chi scrive da sempre questi temi dovrebbero essere chiari, ma a volte resta un pungolo ad essere differenti.
Il luogo dello scrivere, oltre un sé fatto di pezzetti di specchio, e’ il libro. Per scrivere un libro serve coraggio ed incoscienza, passione ed assiduità. Nel piccolo è consentito bearsi nella frase tornita, nel pensiero terso, ma questo limite e’ furbo, perché evita la fatica di provare a crescere e toglie il rischio dell’ insuccesso.
Non occorre scrivere libri per forza, ne escono già una quantità inverosimile e per la stragrande maggioranza sono inutili, al massimo cambiano chi li scrive. Del resto il piacere di scrivere è altra cosa, ovunque lo si faccia, può frequentare cose personali o generali, è un discorso a sé, alla propria sensibilità.
Io sento quando le parole mi si usurano tra le dita, quando perdono significato. Cuore, amore, anima, sentire, percepire, e allora devo nettare, mettere da parte questi contenitori e far emergere quello che si agita davvero. Che è fatto di pieghe, di corrugare sottile, di poco e di variazioni. Il diavolo si agita nelle variazioni e il diavolo per chi scrive, è il progetto, il disegno ampio. Che io vorrei lineare e troppo spesso è circolare, come il ricordo e il rimorso.
Porsi dei limiti, sapendo chi si è, fa parte dell’apprendistato, ma superare il piacere ed affrontare fatica e giudizio, su un progetto ampio ha bisogno d’altro.
Altrimenti ci si esprime come si può e, a meno di essere Karl Kraus, si sa che nel breve c’è la nostra altezza.
Ogni mia penna stilografica ha una personalità. Ci adattiamo entrambi ai rispettivi caratteri, e se voglio cambiarla quando non mi segue, la devo trattare con dolcezza. Alla fine so che lei sarà l’impronta della mia mano. Per imparare a convivere bisogna sperimentare assieme gli aggettivi, le parole obese di vocali che aiutano i repentini cambi di tratto. Chi scrive con una biro non sente che la mano accompagna le anse, le curvature. Con la stilografica e ancor più con il pennino intinto, è come usare un pennello, bisogna dosare la forza per trovare la giusta dimensione del segno. Quando giocavo a biliardo qualcuno mi spiegò che per essere bravi, bisognava avere la geometria e la fisica dentro, la mia testa immaginava traiettorie, la mano seguiva effetti, il braccio misurava la forza ed i risultati erano spesso deludenti. Solo quando lasciavo che la mia parte zen prendesse il sopravvento, subentrava lo stato di grazia e le palle seguivano il fine trascurando i mezzi. E allora la partita non m’importava più, m’interessava il gesto armonico con il risultato e il momento diventava l’assoluto. Così mi accadeva con la scrittura: riconquistavo i pennini senza averli mai davvero abbandonati come se gli anni della prevalenza della biro fossero stati un interludio dettato dalle competizioni che regolarmente perdevo. Continuava a vivere quella parte di me che si ostinava a conservare i ricordi, che metteva da parte la comodità. Anche se ne posseggo diverse non ho l’animo del collezionista di penne stilografiche e di strumenti di scrittura, semplicemente ho il senso dell’inchiostro. Delle carte che assorbono ed amplificano il pensiero, dei pennini che sono al servizio delle parole. Viaggio quando scrivo e scrivo quando viaggio e mi piace viaggiare, scegliere il mezzo. Ci sarà pure una corrispondenza tra il mio piacere nel camminare e nello scrivere con la stilografica. E come tutti quelli che amano qualcosa, ho preferenze, non mi piacciono le personalità facili in ciò che comunica con me, alcune penne le usa da 40 anni, di loro conosco tutto, ma quelle che mi sfidano sono quelle che non hanno ancora un’impronta. Pennini aristocratici troppo duri e pieni di sé, con tratti indecisi per scarsa fluidità, oppure pennini senza personalità, macchine da consumo che non vogliono dire chi sono. Con questi scrivo, trascuro la tastiera, faccio doppie scritture, guardo la pagina alla fine, cercando di cogliere l’ordine complessivo. Il testo sono io, ma anche le righe, i caratteri. Lì si nota una stanchezza, qui un furore, le t non sono state tagliate, le asole delle g trascurate, gli accenti si confondono con i punti.
Devo confrontare due pagine, nell’una il mare di caratteri si è gonfiato, ha preso la mano, è scorso mentre le guance s’arrossavano. La scrittura ordinata si è mossa con folate di vento interiore che la spostavano, per confluire in un golfo, dove si è quietata. E’ rimasta in attesa, non conclusa dopo il punto. Pronta a ripartire. Segno che il pensiero dipanato ha evocato altro e sollecitato nuove curiosità. Nell’altro foglio la scrittura è fluita, ma trattenuta. Si vede che pensieri laterali l’attraggono. Deve conservare un ordine, portarsi verso una conclusione. Potrebbe essere una relazione o un racconto a tema, il suo percorso è circolare, punteggiato di pensieri, i caratteri si staccano netti come se le parole fossero funzionali e non creature guizzanti. Guardando da distante, i fogli senza rigatura rivelano ordini diversi. Cerco il senso degli spazi, i silenzi che alimentano il mistero. Nel primo foglio gli spazi sono irregolari, in alcuni punti la scrittura si è arrampicata di lato per non passare alla pagina successiva. Dei rimandi interpolano le parole, ma gli spazi evidenziano una crepa che segna il foglio dall’alto verso il basso, come una discesa nel proprio deimos. Nell’altro foglio gli spazi sono più larghi, silenzi direzionati per raccogliere le forze verso il passo successivo. Come per le nuvole si può leggere una faccia, un animale, un sogno: era quello che veniva tenuto a bada e che esce come può.
Gli inchiostri diversi hanno marcato la differenza iniziale, il nero blù per la scrittura a tema, il tabacco per quella più libera. Il tempo ossiderà entrambi e scivoleranno verso quel grigio che mi piace così tanto ed è il colore del ricordo leggibile, ma che non pesa.
I libri, per me importanti, li ho letti, ma non li ho mai finiti davvero. Sono lì, attendono qualcosa: una rilettura, un passare di pagine nervoso di ricordo. Attendono, ma non si chiudono. Hanno scandito la vita, delle storie già vissute hanno fatto dialogo. Mai sono stati solo parole, solo oggetti. Negli anni furiosi hanno arrossato le gote, forzato gli occhi, annullato il tempo. E’ stata -ed è- una lotta tra la voglia di aderire e quella di ribellarsi al già vissuto. Il desiderio di vivere come Huckberry Finn, oppure Holden, o il Robert di Per chi suona la campana, ma anche il viaggiatore di Calvino, il Compagno di Pavese ed infiniti altri s’è misurato con la realtà, con la singolarità. Cercata, riconosciuta, pretesa, ostinatamente ribadita. Sempre gli stessi, in questo dialogo muto, mai eguali siamo restati appesi alle vite reciproche dialoganti: loro quelle fissate sulla carta, dinamiche nelle riletture, la mia che si faceva e disfaceva, procedendo. Mai scissi, senza voyeurismo, siamo sodali, compagni d’avventura, confidenti. Per questo i libri che amo non finiscono mai, ed io ricordo, riprendo, annoto, metto da parte le pagine, ma come le persone importanti, non se ne vanno. Continuano a parlare, lottare, urlare la loro esistenza. Sono sempre giovani, loro, ed assieme il tempo si ricombina.
Loro. Nella mia testa generano un tempo medio, un a-tempo che fa vivere assieme. Tiene legata la speranza oltre gli anni che passano. La speranza che diviene certezza che si può fare: essere singolari ed avvertire il mondo.
Questa canzone non era gradita in casa, troppo diversa dagli schemi allora in voga, che oscillavano intorno alle rime baciate, le storie d’abbandono, le casette in Canadà. L’ascoltavo da una radio Minerva, mastodontica come tutte le radio con velleità di fedeltà, ed ero nell’età giusta per sentire le parole addosso. Mi piaceva la malinconica noia che la ispirava, così simile ai miei momenti in cui il fare diventava una scappatoia per non pensare troppo a quello che non facevo. Questa era la noia ricca di chi poteva permettersi di non avere rimorsi, di lasciarsi andare tra le pieghe dei sentimenti, un’ accidia che mi affascinava, come un desiderio possibile da spendere al momento opportuno. Sarà per questo che non mi ha più lasciato.
n.b. Sarebbe interessante leggere e ascoltare le Vostre canzoni della vita…
Mi piacciono i ritratti dei fotografi dell’est, quelli dove emerge la persona, senza inutili allegrie e neppure molte cose da mostrare. I bianchi e neri scabri, fino al morbido dei grigi, i colori che sono quelli di Feininger, dell’america postbellica, le luci gialle, crepuscoli freddi con rossi Agfa, più densi e meno brillanti dei Kodak. Parlare di dominanti azzurre o rosse, è fuori luogo: nell’era del foto ritocco digitale è la testa che conta, e il cuore. Se la tua porta è arrugginita e mobili di legno, inutilmente massiccio, è difficile mettere il futuro nelle cose, è possibile solo investire sui volti, sulle persone, sui paesaggi che fanno emergere dialogo e anima. E anche i nudi sono senza le temperature di colore del benessere, patine di latte acidulo e odore di cavolo e borsch dalla cucina. Nel corpo, pensiero e parola.
Adesso mettendo le mie scarpe ad allineare i passi potrei riscrivere le parole che stanno sopra in altro modo, con mezzo viso verso est, porte che sbattono, serrature malferme, macchine fotografiche sempre un poco arretrate.
Ti farò famosa. Felice? Nò, solo bella. Non ritoccherò la linea della bocca, così irregolare da sorridere anche se non vuoi. Arretra un poco, lì tra la finestra e il letto, e dimentica tutto. Non pensare a play boy, e neppure a chi ti ha fatto l’amore ieri, scordati il seno, guarda me per vedere il tuo volto. I sogni che hai già speso, quelli che verranno rotolando ogni mattina. come biglie da fiera. Devi pagare l’affitto, i libri. Che cazzata questa voglia di capire, ecco adesso lo sai, se sei magra non è per caso. Ma sei tu, senza alcun peccato rimesso, con qualche genitore sperso e fratelli che vorrebbero denaro. Sei tu che non hai voglia di fingere, sei tu che ti mostri e non ti offri. Fa freddo qui dentro. Facciamo queste foto. Poi ti mostrerò chi sei.
Ho riempito pagine di grafia fitta, tracciata in verticale, con questo inchiostro improbabile che sa di stantio. Evoca le grisaglie dei travet, dei diplomatici in cerca di trasgressioni contenute e bisbigliate in ufficio: hai visto, vuol distinguersi, ma si può usare? Le parole trasformate in segni non potranno mai squillare, ed ogni segno cercherà il successivo solo per farsi compagnia, come le frasi preoccupate e chiuse nella sintassi. La purezza del nero è solo un ricordo evocato, per mascherare l’imbroglio.
Staccando un pezzetto e ascoltando i denti, il piacere inizia nel mordere e poi si colloca tra lingua e palato a sciogliere lento: 100% cacao blend peperoncino rosso.
Peccatucci da sera incipiente che riguardano te solo e lasciano un dolce-amaro senso di colpa che piano si diluisce nel caffè.
Ristretto, amaro, ultimo. Per oggi solo piacere puro.
Mi piace consumare le penne fino all’ultimo. Vedere il tratto che s’ assottiglia, si spezzetta, affrontare il cambio in corsa con il leggero disagio che l’accompagna. Se è una stilo, procedere alla cerimonia del caricamento: decidere il colore, odorare l’inchiostro, aspirare con attenzione, espellere, ri aspirare. Regalare due gocce alla boccetta e poi asciugare il pennino. Il primo tratto rinnova la sorpresa del colore e della consistenza, poi verranno le parole.
Se è una biro, si butta, ma non è una soddisfazione dappoco: è corresponsabile di ciò che scrivo.