
Per approssimazioni successive di piccole mancanze si arriva alla convinzione che il tempo ha corroso le possibilità. Non molte, ma abbastanza da non poter dire a se stessi che tutto è sempre a disposizione, che basta applicare la volontà, o la fantasia e le cose desiderate accadranno. Non è grave, è solo la coscienza progressiva del limitarsi e del limitare che si aggiunge alla spensieratezza dell’osare il nuovo, il non percorso ancora. Che sia dal corpo o dalla mente, arrivano segnali che la realtà ha una nuova configurazione da scoprire e che essa è disponibile purché si sappia appieno cosa vogliamo e possiamo collocare in essa. Eppure, in questi confini di nebbia ci si sente comunque se stessi, si acquisiscono tempi e abitudini differenti, ma il nocciolo interiore sembra produrre un vedere e sentire nuovo.
Noi, ad un certo punto, scolliniamo e pur mantenendo desideri e pulsioni, ad esse aggiungiamo una incredibile biblioteca di vissuto che attinge a chi è stato prima di noi, che noi stessi abbiamo sviluppato in un continuo mutare, perdere parzialmente, acquisire esperienze e conoscenza, sentire appieno o in distrazione. Da qualche parte è rimasto molto più di quanto pensiamo. La lingua appresa nell’infanzia, gli errori e le correzioni severe, gli sbagli mai confessati, la gioia del sentire per la prima volta e poi il suo ripetersi diverso. Le abitudini nate da un piacere, le frasi apprese, quelle costruite, quelle dimenticate. Guardare dentro è un cercare tra gli scaffali del vissuto, passare le dita sui dorsi, risentire il profumo e la consistenza della materia, ma soprattutto lasciare che le storie si collochino in un insieme che non c’è più materialmente ma ancora vive e vivrà finché ci saremo.
Le memorie hanno sempre un ingresso comune, molto controverso, che chi c’era ha vissuto in modo differente, poi una stanza in cui ci sono materiali confrontabili e in fine un luogo personale dove c’è stata l’emozione, il senso di un vivere e di uno scorrere che non appartiene altri che a noi.
Ho la lingua e l’etimologia dei miei giorni, ma sempre meno persone con cui parlarne. E così parlo e ricordo da solo. Ho le emozioni della crescita, il parlare e il sentire comune a persone che non ci sono più, ma la loro presenza è ancora in non pochi nodi piacevoli al sciogliersi. Avverto che ciò che sta mutando non è più parte di uno scorrere lento che portava a rafforzare la comprensione profonda, che era acquisizione comune, ma sento che sono le parole che hanno mutato il loro significato perché descrivono una realtà differente e che devo imparare nuovi significati, sentire cosa essi producono nell’evolvere e nel raccontare, altrimenti non capirei il mondo. Così la mia casa è un insieme di appreso, provato, immaginato che si muove silente dentro di me e che acquisisce nuove regole del guardare e del sentire. La vita evolve e mentre conserva, desidera, considera al tempo stesso guarda e intuisce che qualcosa si aggiunge. Così si modificano le possibilità concesse, viene cercato un equilibrio che mantenga in buona relazione ciò che è l’essenza del vissuto, con il vivere e cerca di farli convivere perché ci sia nuova vita da vivere con se stessi e con ciò che ci attornia.
Anni fa lessi e vidi di una pratica che in oriente, in questo caso era il Giappone, ma anche in Cina c’erano pensieri analoghi, teneva come ricchezza comune artigiani di mestieri ormai superati dalla serializzazione dei prodotti. Ad essi dava una pensione perché continuassero il loro lavoro, formassero degli apprendisti, continuassero a lavorare e usare tecniche e materiali che altrimenti sarebbero stati perduti. Il sapere connesso al lavoro era una parte del patrimonio comune, della cultura che si era formata nei secoli. Queste persone avevano vite e abitudini non dissimili da quelle del mondo che era mutato, ma in esso portavano innanzi una cultura materiale estesa, che non rientrava nella moda, anzi era la sintesi di processi millenari a cui si aggiungevano nuove conoscenze. Questo riguardava anche pratiche liberali che spaziavano spesso dall’artigianale all’artistico, i copisti di codici, ad esempio, ma che erano anche comprensione di testi e di modalità di agire relazionale altrimenti incomprensibili. Noi pensiamo che la storia comune, basata su grandi avvenimenti, ci esaurisca e ci basti, ma non è così, ogni conoscenza che non viene trasmessa è perduta nella sua evidenza e di essa avremo solo labili tracce in quel fare per abitudine o in quei modi di dire che non dicono più nulla e non provocano alcuna emozione. Quello è lo spegnersi culturale che nel mentre viene sostituito, sotto di sé ha una schiera di persone che si sentono noiose perché hanno visto, sentito, provato altro da ciò che viene ammannito come nuovo ed è invece un artefatto che massifica e riduce molto a una accettazione o negazione.
Mi spiace non parlare la mia lingua madre se non a me stesso, mi spiace vedere cose che non ci sono più, profumi che erano parte di ciò che era il tempo atmosferico, le case, l’acqua, le stagioni. La mia generazione lascerà tracce poco interessanti, labili perché lente, memorie che non insegnano. Una cultura si spegne, era povera e molto materiale, accade in continuazione ovunque nel mondo, ma non consola. Il tempo ha corroso, ciò che si è disperso ora è molecola nell’aria.
Ti leggo e ti sento come chi ha raggiunto quella soglia fragile dove il passato non è più soltanto memoria, ma deposito vivo di senso, e il presente comincia a disallinearsi dalle sue radici. Hai toccato con lucidità quel punto in cui ci si accorge che il possesso dell’esperienza non coincide più con la possibilità di trasferirla, comunicarla, o perfino riviverla insieme agli altri. Rimani con il tuo patrimonio intatto dentro, ma quasi orfano di sponde. La tua riflessione è amara e delicata insieme: riconosci come il tempo smussi gli orli delle possibilità, eppure non ti abbandoni al rimpianto sterile. Anzi, collezioni con rispetto tutto ciò che è stato appreso, provato, sfiorato. La lingua del passato — tua madrelingua esistenziale — la pronunci ormai per te stesso, come un antico mestiere che non trova più apprendisti, ma che resta arte nobile nelle tue mani. Mi colpisce la lucidità con cui cogli la metamorfosi del significato stesso delle parole. Il linguaggio si muove, le cose dette un tempo ora sembrano appartenere a un codice che pochi ancora decifrano. Eppure tu non rinunci a cercare nuovi significati, nuove collocazioni. Questo è un gesto di resistenza dolce e tenace, non di chi si aggrappa al passato, ma di chi vuole mantenere un equilibrio vitale fra ciò che è stato e ciò che continua ad accadere. La tua metafora degli artigiani giapponesi è potente: anche tu sei, in fondo, un artigiano del senso, uno che continua a maneggiare la propria materia esistenziale con la sapienza accumulata, pur sapendo che intorno la velocità, la massa, l’effimero scalzano i tempi lunghi e il sedimentare paziente del sapere. Ti duole il non poter più condividere questa lingua sottile con molti, ma il fatto che tu la continui a parlare, anche solo con te stesso, è già un atto di fedeltà e di dignità. La cultura povera e materiale di cui parli, forse, non lascia monumenti, ma lascia fibre nei gesti, nei sapori, nei respiri. E finché qualcuno, come te, riesce a sentirne il profumo che affiora dal passato, essa non si è spenta del tutto. Notte serena.
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Grazie Nadine per aver colto il significato profondo che il vissuto, la memoria, ha in me. Cerco di capire la realtà così come evolve per viverla scegliendo ciò che mi assomiglia o mi aggrada. Non vivo nel passato ma finché vivo e sono raziocinante ciò che è stato, vive. Credo accada a molti che hanno la sensazione di essere stati interpreti e testimoni, ma che conoscono i propri limiti e comunque li sperimentano mentre li accettano.
Ancora grazie e buoni sogni
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Il passato pare l’ossatura del presente, la memoria lo fa cosa dell’oggi, il linguaggio che abbiamo maturato non fa altro che ripetercelo. La tua narrazione conforta.
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