
Mi verso il caffè nel bicchierino, come si fa a Trieste. Come faceva mia nonna, che triestina non era. Ha un sapore di casa, il gusto lungo del caffè estratto con dolcezza. Le dita faticano a tenere il vetro bollente, così sorbisco lentamente, con gli stessi gesti antichi che ho ritrovato percorrendo quel grande arco che va incontro al sole e attraversa i Balcani verso Istanbul e poi giù, attraverso Siria ed Egitto sino al Corno d’Africa. La stessa strada che hanno fatto i piedi dei nostri antenati. Sorbire, scaldare le dita, poggiare, parlare con lentezza, e ricominciare. Chissà se è primavera in Eritrea oppure il sole già brucia e di giorno si esce poco. Fuori dai vetri, il cielo s’è ingrigito, ma il mandorlo è luminoso. Accoglie e tiene in sé la luce che restituisce in quei fiori di cinque o sei petali che ora si posano ovunque.
Dovrei parlarti della primavera qui in pianura, ma ho solo colori che gli aggettivi sporcano tanto sono teneri. Solo il verde tarda un poco e non è ancora così nuovo. Camminando attorno alla città ho visto i campi coperti della peluria degli steli appena accennati tra il bruno della terra. Si capisce che il nutrire sarà generoso e ciò che sta nascendo crescerà orgoglioso. Già muta il verde al limite dei fossi, tra i narcisi a frotte che, secondo loro alchemici sogni, si sono installati in gruppi fitti lungo i clivi. Sono molti i colori e ovunque. Le fioriture sono così improvvise, che colmano gli occhi e noi, così immemori, ne siamo sorpresi e additiamo sorridendo ciò che accade. I marciapiedi di città sono tappeti di petali che macchine solerti spazzano di buon mattino. Ne sento il rumore da casa, vengono anche nel vicolo, ma gli alberi le sbeffeggiano perché appena se ne sono andate ricomincia la pioggia di petali sulla strada. Ho osservato che il grigio nero dell’asfalto sta bene con tutto, anzi ravviva i colori. Insomma attorno c’è un gran lavorio di piante e di fiori che non lascia indifferenti.
Tra i negozi sotto i portici, sono le pasticcerie a parlar presto di primavera. I dolci teneri e le focacce hanno preso il posto dei fritti, ultima propaggine d’inverno e carnevale. Mi pare che pure la gola cerchi adesso una sua età dell’innocenza e che il correre sui prati, il primo sudore che si rapprende all’aria, corrisponda a un sentire che rende leggera la voluttà. Non è ancora tempo dei vestiti che giocano col corpo, però i soprabiti ingentiliscono il passo. Anche la sensualità s’alleggerisce e attorno è tutto un produrre d’ormoni, di fluidi che scorrono, gemme e steli che s’inturgidiscono, così vien naturale che il corpo li segua e si conformi. Non c’è più il greve del chiuso, delle passioni in cui l’aria s’addensa e i colori e i sensi s’inscuriscono, adesso è la luce che trionfa e pare tutto avvolgere di leggerezza. Ho l’impressione che tra i tanti tipi di bellezza, ce ne siano alcuni dove essa si rinnova e che sia inutile cercare di prenderla perché deperisce tra dita e che pure le mie parole non ti dicano molto di ciò che davvero accade attorno. Sarebbe un buon modo parlarne rivolti al cielo, stesi sull’erba a guardare nuvole gonfie di bianco. Senza alcuna fretta, con un tempo che non s’addensa.
La vedi quella che sembra un cappello con un viso che sorride e quell’altra non pare un cinghiale che rincorre una palla ? Parlar di ciò che pare, perché ciò che è, sta dentro e ha una sua bellezza che sappiamo. Solo che non si dice.
Che bei pensieri! e comunque la bellezza la dici, la racconti bene con il tuo sentire che è originale, come lo è quello di ognuno di noi esseri umani su questa Terra. L’importante è viverla, e non permettere mai a nessuno di rovinarcela, e rispettando anche quella degli altri.
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Ti scrivo senza sapere bene da dove iniziare, come quando si passeggia senza una meta precisa, lasciandosi portare dai passi. Ti ho immaginato con il bicchierino tra le dita, il vetro bollente che costringe a sorbire piano, come se il tempo potesse rallentare insieme al caffè. È bello pensare che certi gesti ci attraversino senza appartenerci davvero, che siano tracce di un passato che ancora respira nelle mani, nel modo in cui portiamo alle labbra il sapore di casa.
Qui la primavera non ha la pazienza di farsi aspettare. Si è svegliata di colpo, spalancando le finestre, buttando fuori dalla terra tutto ciò che ancora esitava. Non ha la misura delle cose che si svelano piano: straborda, esagera, insiste. I colori si prendono spazio senza chiedere permesso, i cieli si gonfiano di luce e l’aria porta con sé qualcosa di nuovo, qualcosa che somiglia all’inquietudine dolce di chi sta per partire.
Eppure, tra tutto questo fremito, rimane un senso di attesa. Come se la primavera non fosse un arrivo, ma solo un invito a qualcosa che deve ancora accadere. Forse è il modo che ha il tempo di giocare con noi, di farci credere che la bellezza si possa afferrare, mentre invece ci sfugge tra le dita, proprio come la sabbia quando proviamo a stringerla.
Ho pensato che sarebbe bello parlare di questo senza parole, sdraiati sull’erba, a guardare le nuvole trasformarsi in animali che corrono e cappelli dimenticati dal vento. Che tutto questo ci scivolasse addosso senza bisogno di nomi, senza il peso delle spiegazioni.
Forse è così che bisognerebbe vivere la primavera: senza cercare di capirla, senza cercare di trattenerla. Solo lasciandosi attraversare.
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Che bella questa tua primavera, Nadine. Le parole diventano sostanza, emozione, forza che interroga e riflette tranquilla. Quante considerazioni su cui riflettere. La primavera, come il tempo, ha bisogno di dialogo, di scambio per non essere solo superficie che scorre e scompare.
Grazie Nadine.
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La bellezza è importante viverla, quella che ci interpella, quella che gestisce per noi lo sguardo e si combina con ciò che sentiamo, siamo,. In primavera, per me, c’è un crescendo di vita e di forza in ciò che attendeva. Come se fosse il tempo che interpella e chiede attenzione. Un decidere il possibile, perché poi maturerà.
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Si, è vero, la primavera è sempre una nuova e splendida speranza!
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