Le billette si allineano nel piazzale. Disposte per orditi e trame salgono di 8-10 ordini in quadrati di sei metri o più. Qualche colata e le pile si alzano, poi i camion caricano e portano via. Il freddo del metallo lo conosce solo chi ci ha messo le mani. Anche con i guanti spessi, quel freddo ti entra dentro, supera i calli, s’infiltra sino alle ossa e lì resta in agguato per la notte, per quando sarai più vecchio. E’ un freddo solido, squadrato, 140 per 140 fanno 900 kg a billetta di 6 metri. Così è un freddo pesante, potente, autonomo e indifferente. Com’era indifferente il calore, prima bianco e poi rosso ciliegia, oltre mille di gradi di colata che rapprendono per loro conto, diventano billette che scivolano sui rulli. I muletti caricano, portano fuori. Nel piazzale. All’aria. Aria fredda d’inverno e alito di metallo caldo che muove l’aria, deforma lo sguardo. Non è respiro d’uomini, non c’è vapore, è una vita per suo conto. Allineata. Impilata. In attesa. Intanto scaglie d’ossido si staccano e volano leggere. L’anno scorso con la prima neve, foglie di ferro quasi molecolari, si mescolavano all’aria. Erano larghe e leggere, sembravano uccelli nel mulinare dei fiocchi. Scaglie prima grigie e poi rosse di ossido. Ruggine che volava. Come ciocche di capelli di una bella donna capricciosa che li taglia e ti guarda con sfida. Oggi non c’è neve, ma scaglie di ossido continueranno a volare dai camion in una scia destinata all’erba di scarpata, ai fossi. La poesia in fabbrica te la porti dentro, fuori turno. Nei turni serve attenzione, bisogna esserci con la testa e non sbagliare. Nella poesia si sbaglia sempre, sei fuori dal mondo, vedi i particolari e il generale, ti soffermi, pensi con un respiro possente e lieve alle cose, ai sentimenti, li accendi e prendi fuoco con essi, poi subentra il ragionamento che è come il metallo, solido di sé. Lo puoi far fuori questo pensare, ma vicino alle siviere, tra macchine enormi, pensi a ciò che dovrai fare e che fai adesso, non hai tempo, ti muovi con il tempo del metallo. A fine turno potrai esistere altrove e nel piazzale dove volteggiano camion, gru a ponte e muletti, la poesia sarà quella che ti fa alzare gli occhi quando sui pioppi di cinta compare il primo verde.
E’ la stessa attenzione che ora segue la danza delle forche dei muletti che sollevano e allineano le billette. Tutti diminutivi per cose che pesano, sono potenti, buone se non ti cadono addosso: billette, muletti. Adesso il pensiero si ferma, torna indietro. Alla Tyssen, agli operai, non gli hanno fatto male le billette, è stato l’azzardo di altri sulla loro pelle, l’olio ha preso fuoco e l’incuria ha fatto il resto. Chissà chi si ricorda ancora della Tyssen e dei sette morti di Torino, sono passati 17 anni. Anche dei cinesi di Prato nessuno si ricorda più, bruciati nel capannone dove dormivano e lavoravano. E dei cinque morti di Brandizzo, cinque come a Calenzano dieci giorni fa. Qui sono morti in due, sei anni fa, investiti dal metallo fuso a 1600 gradi, che è piovuto da un crogiolo. Non ha retto il supporto, un errore di fusione, c’è stato il processo, le condanne, come per gli altri incidenti sul lavoro poi ci sono gli appelli, finché nessuno si ricorda più. Solo le famiglie ricordano. Sono passati pochi giorni o anni e non ci si ricorda più di nessuno, solo il cuore ricorda. Il cuore è qualcosa che si costruisce e che mette assieme, che ti fa provare, sentire e vedere gli altri. Non ci appartiene mai davvero. Ma adesso facciamo fatica a stare assieme. La classe operaia non esiste più, non esistono le classi come le abbiamo conosciute, sono diventate stratificazioni di bisogni diversi per età e appartenenza geografica. Da noi si sfogliano come le billette, si disperdono nei fossi dell’individualismo. E questo cambiare la società non è successo troppo tempo fa, qualcuno s’è portato via per interesse lo stare assieme. Prova a pensarci, è accaduto. A chi è servito?
I capannoni sono aperti su un lato. Ci sono i portoni, ma sono sempre aperti. Se guardi da fuori vedi luci rade, buio e ogni tanto lingue di fuoco: i forni covano metallo, lo scaldano, lo sciolgono. La ganga galleggia sul metallo fuso, poi finisce, a mucchi appena fuori. Dalla parete che manca entra vento d’inverno, entra ed è respinto dal calore. C’è poesia nel calore del metallo che scende dalla siviera negli stampi, sembra colore denso che cangia e che cola, c’è la poesia di una forza antica. Cose d’altri tempi, come il carbone, il minerale, il calcare. Cose senza tempo. Sarebbero facili le similitudini, evocare miti e vulcani, ma sono così banali le similitudini. Da queste parti si usa rottame. Rottame che arrivava dalla Russia, rottame di guerra fredda, di altre povertà, adesso arriva da paesi che erano poveri. C’è stato un tempo in cui, dopo Cernobyl misuravano la radioattività. Chissà se la misuravano sempre. Nelle case e nelle fabbriche attorno, anni fa avevano steso lenzuola fuori delle finestre. Si riempivano di polvere scura in pochi giorni, la gente protestava e non accadeva nulla. Anzi non è accaduto nulla: la fonderia c’era prima delle case, hanno detto, colpa vostra. Sono diminuiti gli scoppi di notte, la gente si è stancata, non ha più protestato. Quando ci si stanca ci si abitua, c’è qualcosa che non si vorrebbe, ma c’è e viene confinato in un angolo. Sta lì acquattato come una bestia in sonno, poi di tanto in tanto, muove la coda e fa paura. Speri si riaddormenti se non puoi affrontarlo. E’ questo sonno che ti fa male.
Per capire dove sei, in acciaieria, bisogna guardare quel pavimento grigio, le rotaie dei carrelli, ascoltare i rumori, sentire l’ozono e il carbonio che pizzicano il naso, vedere le pance dei forni, il calore, le tracce di ciò che resta e ciò che se ne va. Questa è realtà, solida e a turno continuo. Qui capisci che la realtà non dorme, ma fuori non ci pensi mai. Tu dormi e la realtà prosegue, la raccogli la mattina ascoltando il giornale radio, come la polvere sul lenzuolo fuori dalla finestra. Tu dormivi e la realtà apparecchiava il giorno. Particolari e generale. Guardi nel piazzale ed è quel volteggiare di scaglie d’ossido che è poetico, sembra neve sporca, sembra la pelle del serpente che volteggia nell’aria. Sembra ed è solo ossido che si posa. Piano, piano, come neve. Appunto.
Commossa…
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Grazie Marina 🤗
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Caro Roberto ho appena riletto le tue riflessioni, i pensamenti e ripensamenti, credo di comprendere solo in parte perché non ho mai vissuto questa realtà . Mi dolgo assai di molto e agisco per quanto posso è un nonnulla di fronte a pile di situazioni difficili, terribili , tantissime vitali !
E prendo fiato che sembra venir meno, l’impotenza di fronte a quanto mi è vicino e lontano che in gran parte mi sfugge , è un limite insuperabile.ma il tutto che riguarda la Terra mi riguarda ed immenso per noi umani ,ed è un limite ,io sono un limite io che non sono neppure una pulce . In acciaieria Ansaldo -Genova lavorava una persona assai vicina , io no . Ho conosciuto e ascoltato i racconti diretti di tanti anziani che lavorano nelle miniere alcuni sono morti poco dopo erano italo francesi li.,conservo nel cuore e nella mente ,il ricordo è vivo , mi commuove parlarne , ancora più mi commuove riascoltare le loro voci e rivedere impresse nel corpo nei volti e nello sguardo la loro vita detta con tale semplicità e rassegnazione, i problemi che dovevano ancora superare e le lotte per ottenere solo una piccola parte a risarcimento di una vita spesa al servizio di padroni senza morale e senza sentimenti. Mia nonna lavorava in filanda a Jesi così le mie pro zie e una zia, mio nonno era un pastore sardo, così i miei cugini , mio padre faceva il facchino al porto di Ancona ,così i bisnonni . Oggi figlie e generi fanno gli operai e sono sempre mal trattati .
Che tristezza per tanti sacrifici quotidiani in cambio di spiccioli,alcuni di loro si sono laureati mia hanno scelto di restare nella terra di origine . Sono consapevole di poter fare poco , un nonnulla ma ciò che mi preme di più è farlo , per me stessa per chi amo e per chi non amo ,non in senso profondo, ma rispetto perché tutto ciò che è vivente merita rispetto ed è ciò che reclama tutta me stessa e la mia coscienza. Al contempo anche se non dormo ed ora non dormo so che la realtà prosegue inesorabilmente.
Grazie grande di avermi dato modo di scrivere i miei pensieri e le mie emozioni , è una necessità confrontarsi , tu offri molte motivazioni per parlare in modo più profondo .della vita e della non vita . Buon riposo
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Grazie Francesca, è bello questo ascoltarti, è comunicar sentendo e le storie che vivono in noi, di cui siamo depositari, diventano modo di vedere la realtà e il mondo. È questo che genera la comunicazione vera, il sentire e vedere ciò che accade e sapere da che parte stare. Grazie e buona giornata. 🤗😊
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