La macchina è un corpo piegato,
sinuoso nello spazio ristretto,
funziona nella sera, sola, gioca in curve veloci, pagine e dorsi.
Oltre è buio e silenzio,
attendono le pile, i pallets pronti ad essere inforcati,
sono libri or fuor d’interesse.
Un’altra sera, eravamo in due,
si sentivano i passi,
rimbalzavano su scaffali e soffitti,
su tubi d’aspirazione, sulle condotte colorate di rosso e di blu,
sui fasci di cavi e sulle macchine ferme.
Nel disfarsi d’un progetto ci sono catene d’eventi,
e i muri ricordano tutto,
le macchine una ad una si fermano,
le dita e le voci non accarezzano più i quadri di luci,
tutto si spegne un poco per volta.
C’erano cento persone ora trenta eran troppe
e nel rumore dei passi si sentiva l’attesa,
il fermarsi che voleva spiegare,
discutere,
mettere evidenze a compensare gli errori.
Prima che tutto fallisse,
prima che una vita
diventasse indifferente,
nessuno sembrava percepire il tracollo,
governava la speranza a dare un senso all’evolvere.
Questione di soldi, d’interessi, impazienze,
poi sulle macchine la polvere ha iniziato a cadere,
si sono chiusi i portoni
e il freddo ha investito ciò che di silente restava,
Ora dagli alti lucernari, a entrare fatica la luce,
non illumina più, inutile essa, ascolta i passi,
e cerca nel suono che qualcosa muti l’attesa.
Una cronaca poetica del declino, una narrazione che avvolge il lettore nel respiro metallico di una macchina che si spegne, in un luogo che trattiene il ricordo di ciò che è stato. C’è una malinconia sussurrata, ma implacabile, in ogni immagine: dai passi che rimbalzano su scaffali e tubi, alla polvere che inizia a posarsi, lenta e inesorabile, su macchine ormai silenziose.
La macchina, con il suo corpo piegato e sinuoso, non è solo un oggetto; è un simbolo di vita, di lavoro, di movimento. Ma, come ogni vita, si arresta, lasciando spazio al vuoto, al freddo, a lucernari che non riescono più a illuminare. C’è una strana bellezza in questa rovina: non è fatta solo di fallimento, ma di memoria, di un’eco persistente che abita muri e corridoi, un sussurro che cerca ancora significato.
La tua poesia tocca il cuore di una tragedia collettiva: il disfarsi di un progetto, l’erosione lenta della speranza, quel tracollo che nessuno vuole vedere finché non è troppo tardi. Eppure, nel freddo e nella polvere, si percepisce un’attesa, come se qualcosa – forse il suono di passi, forse un ricordo o un lampo di luce – potesse ancora cambiare il destino di quel luogo.
Hai dato anima a ciò che è apparentemente inanimato, rendendo vivi i dettagli, i suoni, i silenzi. La tua poesia è un requiem per un mondo che muore, ma è anche un inno alla dignità del ricordo, al valore di ogni passo lasciato su quel pavimento. Grazie per questa potente evocazione, che lascia un segno profondo. 🙏❤️
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Grazie Nadine, hai colto lo spirito e l’essenza della mia emozione. Sono luoghi che ho conosciuto bene, per lavoro me ne occupavo. Ora in alcuni ne colgo il decadere e la trasformazione. Dove non ci sono problemi difficili al mutamento, le cose evolvono, in altri, come nelle case abbandonate, restano tracce di voci, macchine che nessuno mantiene, fogli sparsi a terra, scatole che si ricoprono di polvere. Poi entreranno uccelli dai vetri sfondati, semi che daranno nascere piante in luoghi impossibili, è la vita che riprende il suo disegno e guarda attonita ciò che le hanno lasciato.
Hai ragione Nadine, c’è malinconia e anche speranza. Grazie 🤗
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Le case abbandonate sono il mio leitmotiv. È un’ingiustizia che urla silenziosamente in ogni angolo delle città: case vuote, finestre spente, spazi che potrebbero essere rifugi e invece restano prigioni di cemento inutilizzato. E intanto, fuori, tante persone costrette a vivere per strada, sotto il peso di una società che guarda ma spesso non vede, o peggio, distoglie lo sguardo.
Questa contraddizione non è solo una questione di spazi inutilizzati, ma di priorità distorte, di sistemi che antepongono l’accumulo al bene comune. Ogni casa vuota è un manifesto dell’indifferenza, un grido di responsabilità mancata. È una ferita sociale che ci ricorda che il diritto alla dignità e a un riparo dovrebbe essere inviolabile.
Ma dietro queste cifre e strutture c’è di più: ci sono vite. Persone con storie, sogni infranti, ma anche speranze che resistono. E ogni casa vuota non rappresenta solo un’opportunità mancata, ma una promessa non mantenuta da parte di una società che avrebbe gli strumenti per fare meglio, per accogliere, per costruire ponti anziché muri.
Affrontare questa ingiustizia non significa solo riempire spazi, ma ridare senso al concetto di comunità. Significa riconoscere che nessuno dovrebbe vivere in strada mentre attorno a lui le case restano in silenzio. È una sfida morale, più che materiale, che ci riguarda tutti.
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condivido ogni parola Nadine. Questa ingiustizia si somma all’uso della casa come albergo. La mia città si svuota di abitanti, non affitta alloggi a chi lavora per trasformare le case in b&b. Persone con lavoro che dormono in auto, affitti che salgono a cifre impossibili. Questo distorcere il significato di abitare crea un disagio insostenibile, la perdita di legami e una perenne precarietà. Parleremo ancora di questo tema perché se l’uomo ha diritto a una dignità, avere una casa in cui abitare fa parte di questa dignità.
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