







Stamattina, da poco passato mezzogiorno, la via che un tempo mi faceva timore come una infinita distanza da casa, era piena di sole. I palazzi che poi ho amato, quelli abborriti, erano immersi nella quiete di passi distratti. Alcune persone ai tavolini di un bar parlavano dell’autunno precoce e una sequela di portici si protendeva oltre la curvatura della strada, la chiesa non si vedeva e gli archi sembravano non finire in qualcosa da scoprire. Ogni volta che passo rivivo il piacere di una adolescenza irta di difficoltà ora quiete, avrei avuto episodi infiniti da raccontarle sulla strada in cui lei abita, non l’ho fatto per stanchezza. Tutto si era concluso in una fatica che si trascinava, ma l’abitudine di non chiudere le porte è rimasta e ciò che non le ho detto è rimasto a lievitare nelle libere associazioni dei pomeriggi.
Dal suo palazzo si vede l’interezza del giardino che dall’Ercole dell’Ammannati si estende per l’intero cuore di un quartiere. Il portiere non mi ha mai concesso di salire sino alla terrazza e di fotografare ciò ho bene nella mente. Tra quelle strade che dall’alto sembrano tagli netti nelle case, sono cresciuto, ho corso sulle gambe di bambino, sognando e guardando ciò che nasceva intorno. Si giocava spesso nei cantieri, inseguiti dalle bestemmie e dai sassi dei manovali, ma troppo forte era la tentazione di trovare “cose” tra i detriti di ciò che veniva abbattuto in aggiunta alle rovine della guerra. I tesori erano resti di memorie. Cartoline, libri sdruciti, accartocciati dalla pioggia e dal sole nascosti tra ferri che diventavano archi e frecce, erano vetri colorati che si mescolavano ai dischi di bachelite infranti, ai cassetti di scrittoio di cui restavano pezzi d’intarsio e incastri accurati. Una miniera in cui poteva emergere di tutto ed era quella possibile scoperta che affascinava, che alimentava i racconti dopo una fuga con i piccoli tesori raccolti, le mani tagliate, le gambe ricoperte di polvere di calce. Seduti in un rifugio sicuro, dietro la chiesa che veniva ricostruita dopo l’immane disastro del bombardamento, scambiavamo cose, racconti, pensieri di un crescere che da ogni frammento di parola, di cosa, di conoscenza, di percezione costruiva possibilità, usi, giochi, persino parole nuove che diventavano gergo. Potevo raccontarle tutto questo, assieme al ritorno nella sera, a casa. La complicità di mia nonna nel lavarmi, nel rendermi presentabile oltre gli strappi, le abrasioni, le suole consumate dal correre?
Quando passo per la via, davanti al palazzo che ho visto costruire e dove c’è il suo nome tra i tanti campanelli, cerco il suo volto, Siamo invecchiati entrambi, ma le vite scorrono parallele su strade scivolose e le riflessioni di ciascuno non si incontrano più. Quando ci si conosce in profondità si intuiscono i pensieri o almeno la nuvola di intenzioni che li genera. Era piacevole sentirmi raccontare com’ero allora, ma al tempo stesso sentire in lei il pensiero che si formava. Mi sorprendevo dell’intuito, del nuovo modo di vedere le cose. Cercavo l’essenziale come ora cerco il suo volto e un saluto da scambiare, eppure allora, come adesso, c’è in me il molto e il poco che si confondono. Ciò che fa star male vedendo un fine alle notizie, ai fatti è il racconto del piccolo che ha una sua grandezza e prende il volo nella fantasia del possibile. Ripensavo al Carducci di Davanti a San Guido, alla dualità che ognuno di noi possiede se ha lasciato la porta dell’infanzia, della prima giovinezza aperta. Pensavo a come da quella porta veniva un vento pieno di profumi, parole, immagini, passi e corse, nodi mai dipanati, paure ed entusiasmi. Pensavo a come tutto questo potesse essere solo messo in un romanzo, che è il luogo dove qualcosa principia e poi si svolge e che mentre parla, si rivolge a un indeterminato punto davanti agli occhi, ma è anche un luogo in cui la vita guarda la vita. E come dai tavolini di un bar immagina mettendo assieme chi sta dentro e attorno, e può guardare senza timore le tessere dell’infinito labirinto, gli specchi e ciò che è solida convinzione. Immagini interiori che messe assieme sono la stessa cosa, ma che solo il possibile immaginato addolcisce riscrivendo il ricordo. Questo non potevo raccontargli lo e come lei non mi raccontava la verità ma ciò che le assomigliava e mi permetteva di vedermi, lo stesso io facevo con lei.
Mi sarebbe piaciuto salutarla nel sole fresco di stamattina, riproverò ogni volta, ma ormai è una scusa per ripassare dove molto è già accaduto. Quanto basta per andare altrove.
Leggerti adesso, all’ora in cui si è sfatti, mi aiuta a dare un senso persino ad una giornata pessima.
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Grazie, hai risollevato me 🥂🤗
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Bel brano, complimenti
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Grazie Marisa 😊
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Complimenti per il tuo scritto e per le immagini davvero piene di suggestioni.
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Grazie Vincenza, sono contento ti sia piaciuto 🤗
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