Gli asciugamani perdevano sabbia ovunque e avevano l’odore del cotone bruciato dal sole mischiato con la crema Nivea, anche le lenzuola avevano un proprio odore, mai più trovato, ed era quello del sapone marsiglia con un fondo di sole e vento. Su questi baluardi scorreva l’estate al mare con le sue cinque settimane di corse, di sudore, salso sulla pelle e spine nei piedi ustionati. Poi il mare scuriva, una mattina trovavamo in spiaggia molte più alghe e granchi del solito, come se la risacca si fosse destata svogliata e non avesse voglia con le sue lunghe dita prensili, di riprendersi i doni della notte. il cielo scaldava meno la sabbia ma era un lenzuolo candido che non lasciava trasparire l’azzurro. Dal lago arrivavano nubi, prima bianche, poi più scure e vento che sollevava sabbia percuotendo corpi e occhi, il mare si alzava, facevamo l’ultimo bagno della giornata in mezzo alla spuma bianchissima in un’acqua insolitamente calda.
I richiami dei genitori si susseguivano, diventavano urla e già preda del vento freddo e della sabbia, tornavamo verso casa. Lentamente, perché la sabbia non scottava, regolandoci con il temporale che stava arrivando. Mentre gli adulti chiudevano finestre e porte, portavamo le sedie sotto lo spiovente della casa e seduti in fila, cominciava il chiacchiericcio, gli scherzi e le risate che avrebbero reso la doccia un supplizio. Cominciava a piovere, il cielo divenuto scuro evidenziava i fulmini che si scaricavano in mare, le gocce grosse erano subito fitte. Allungavamo la mano per sentire il bagnato: era caldo, cambiava il colore delle dune che da giallo ocra diventavano di un grigio granuloso pieno di bolle, come fossero percosse. Dicevamo tra noi che quelli erano i lividi della terra come le nostre bluastre tracce di cadute. La sabbia assorbiva tutto, riarsa da settimane di sole pieno, a suo modo reagiva con un lieve vapore che il temporale abbatteva continuamente. Gli scarabei stercorari si erano immersi nella sabbia con il loro lavoro quotidiano, uccelli e gabbiani volavano bassi con picchiate improvvise, attratti da una improvvisa libagione di insetti e di piccoli pesci spinti a riva dalla risacca ora rabbiosa.
Attendevamo finisse, ci avevano assicurato che il brutto tempo non durava, ma erano il lago e il vento a determinare i temporali, e per noi queste entità lontane sembravano antichi dei che avevano una forza incoercibile sulle cose e sugli uomini. Di questo discutevamo, mentre le notte accendevano un lumino davanti all’immagine di un santo, per noi era tutto vero quello che ci veniva detto e quello che i nostri compagni di gioco avevano sentito nelle case. Per quelli di città, come me, c’era il racconto dei temporali sul canale dietro casa, i fulmini catturati dall’antenna dell’università, ma per chi veniva dalla campagna c’erano ben altri racconti, tetti scoperchiati, alberi abbattuti, la corsa per coprire il grano messo ad essiccare, le trombe d’aria di giugno che si scatenavano tra mare e terra e poi colpivano tracciando una scia che andava a distruggere raccolti e vigne, ma secondo un pensiero oscuro che colpiva gli uni e risparmia a gli altri, perché? Restavamo, noi di città, pieni di domande e intimoriti da tanta furia e dal pensiero che forse lo stringersi delle nostre case nelle vie strette, era l’antica paura e il rimedio a quelle tempeste e trombe d’aria che flagellavano la pianura e il litorale.
Il pomeriggio si consumava in fretta, eravamo alla fine d’agosto, tra una settimana saremmo tutti tornati alle nostre case, sarebbe ricominciato l’approntare quaderni e libri per la scuola, ma il gioco e la libertà avrebbe avuto l’ultimo sussulto cittadino fino a ottobre. Intanto guardavamo il cielo che ora cedeva alle lusinghe del sole. Questo dapprima era un disco bianco poi via via diventava più limpido e rosso per lo sforzo di spingere via le nubi. Guardando in lontananza dalla cima di una duna, si vedevano le navi ancorate e il mare ancora furioso, mentre il tramonto illuminava i nostri corpi e nelle ombre allungate c’era il fresco della sera, pieno di un odore sottile che solleticava il naso. Non sapevamo cos’era, ma ci pareva la coda di un drago ch’era passato. Era ozono, l’avremmo saputo con lo scorrere degli anni, per ora c’erano i richiami e le minacce delle madri, prima la doccia e poi la cena,.
Molto bello ciò che hai scritto
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Grazie Marina 😘
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