In questi anni di globalizzazione, le aziende hanno inseguito il costo del lavoro, anziché l’innovazione e gli investimenti, per aumentare tecnologia e produttività. Anche dove si sono riviste le modalità e il cosa, produrre, questo non ha avuto nessun fine sociale, ma solo produttivo. Insomma di Adriano Olivetti (salvo casi esemplari) non se ne vedono nell’imprenditoria che ha grandi ambizioni, ma prevale la concezione liberista spinta del mercato, che taglia i costi nelle parti più fragili. Da tempo ci stiamo cinesizzando, o indianizzando anche in Italia, le leggi statuiscono la precarietà, e ne mutano l’accezione in positivo chiamandola mobilità o lavoro autonomo e l’hanno inserita stabilmente come componente importante nel mercato del lavoro. Questa mancanza di parità tra chi offre e chi accetta un lavoro, crea una subordinazione dei più deboli al mercato, molto più forte di un tempo. Dobbiamo anche considerare che la globalizzazione ha generato protezionismi e dazi che hanno più funzione politica che redistributiva e che vengono pagati sempre dalla parte priva di alternative. C’è non solo l’ineguaglianza tra persone che cresce ma anche chi lavora, nelle fasce più basse della produzione, spesso con orari impossibili, si impoverisce perché non riesce a guadagnare abbastanza per sopravvivere e mantenere una famiglia. Il calo demografico e il welfare familiare a supporto dei figli e nipoti poveri, sono prodotti di questa stagione liberista che anche nella pandemia ha trovato modo di arricchire ulteriormente una parte mentre chi aveva un lavoro, ha rischiato la salute ed ora o è a rischio licenziamento oppure si è ulteriormente impoverito. Se siamo a 10 milioni di poveri e a 7 milioni (1/9 della popolazione in indigenza assoluta) non è frutto del caso, né di una politica che abbia avuto attenzione al Paese nel suo complesso, si sono piuttosto mantenute, finché possibile le piccole aree di privilegio, incuranti di come traboccava il denaro prodotto nel Paese.
Se la pressione su chi lavora cresce in ragione della nuova divisione mondiale del lavoro basata sul consumo e la crescita illimitata, ciò che serve davvero per vivere, ovvero l’agricoltura e le merci di prima necessità sviluppano mercati paralleli e questo comporta che quello che paghiamo meno al consumo, compreso il surplus infinito di merci di bassa qualità, qualcun altro l’ha pagato altrove, senza giusta retribuzione e dignità del lavoro.
Questo mondo del benessere per alcuni e la miseria crescente per altri, non può reggere. Quando un improvviso cambiamento delle abitudini colpisce tutti, si disvela l’assurdo di tanta, troppa, ingiustizia che circola nel mondo e nasce l’idea che il dopo non sarà come prima, ma poi quando la pressione si allenta la tendenza è a riprodurre le stesse condizioni di piccolo privilegio, anche se qualcuno dovrà pagarle al posto nostro. Non può essere così e se purtroppo gli indicatori sono gli stessi non si può misurare né la felicità e neppure il benessere di un Paese sulla base di quanta ricchezza produce ma piuttosto sulla quantità di persone che stanno male, che non hanno il necessario.
La stessa emigrazione non solo è necessaria per una parte non piccola di impresa ma sta ulteriormente depauperando di forza lavoro proprio in paesi, come l’Africa che più di altri stanno fornendo le materie prime al mondo. Oltre alle vaccinazioni e la sanità è necessario portare il lavoro in questi Paesi. Un lavoro che non è la traduzione delle nostre condizioni lavorative ma quello che è compatibile con il clima e con la necessità di beni primari che attanaglia una parte enorme del miliardo e 200 milioni di persone che abitano in Africa. Se un imprenditore paga 500 euro in Marocco, o in Algeria, o in Senegal, si arricchisce e crea ricchezza in quel paese e comincia ad affrontare il problema dell’immigrazione. Cioè partiamo dai problemi e risolviamoli dove ci sono, vale per il nostro Paese, ma anche altrove, dove le spinte a cercare una soluzione di sopravvivenza non sono coercibili. Queste persone che arrivano e che sono destinate ad ingrossare l’esercito del lavoro illegale, a fornire cibo alle nostre tavole, a fare da manovali nei cantieri, nel mondo della logistica, a essere depredati di una vita degna, non hanno altre possibilità di vivere se il lavoro non viene creato, dove sono e se dal loro lavoro non viene anche una parte della risposta alla crisi ambientale globale. Questa è la condizione perché questo esodo non accada. Derubricare dall’attenzione i conflitti, le stragi e la fame, la stessa desertificazione di territori prima fertili, nel mondo globalizzato non ci salva dai loro effetti. Questo influenzerà le nostre leggi, il nostro lavoro, le regole di convivenza. Partiamo dal lavoro, dal suo significato nella vita delle persone e ci accorgeremo che questo ha in sé le contraddizioni e le risposte alla nostra epoca che partono dalle nostre ineguaglianze e povertà. Non è questione di buona volontà ma di egoistica programmazione di futuro: il nostro, dell’intera specie.