sul dono

Il cavalluccio era di cartapesta. Aveva un’anima di ferro che gli dava la forma ( ma questa fu una scoperta successiva ) e posava su una tavoletta di legno munita rotelle. Con un anellino di ferro davanti e uno spago rosso prometteva di seguirti su ogni pavimento. I colori del suo corpo erano pastello e uno zoccolo scuro era poggiato sulla punta, come volesse correre o stare in posa. L’avevo trovato vicino alla calza di lana grossa, piena di mandarini, noci e qualche dolcetto. Ero felice e dopo aver giocato tutto il giorno con il cavalluccio, lo portai a letto con me.

Un dono è sempre una proiezione di chi lo fa, una carezza aggiunta a un rapporto d’amore che non è mai eguale a ciò che di esso si può raccontare. Ed è una sorpresa, ovvero rappresenta l’inatteso che va direttamente al sentire e genera una gioia gratuita, forte, persistente. Il dono sbagliato è quello che non ha questa capacità e forse il dono più naturale è quello che ha in sé la mancanza e la semplicità.

Se dopo tanti anni, ancora mi ricordo del cavalluccio, è per l’emozione che esso ha portato con sé, per la sorpresa e per l’instaurarsi di una relazione tra una data, l’epifania, e qualcosa che poteva ancora darmi piacere, meravigliarmi negli anni che sarebbero seguiti. In questo forse sta la ritualità di alcuni giorni e il loro significato ancestrale che sembra dire a chi ama che ci sono momenti in cui l’abitudine cessa e subentra la conferma e il cercare qualcosa di più profondo nel tenersi assieme fatto di gesti, attenzioni, che durano tutto il tempo dell’anno. Il dono è un bisogno che viene pensato, cercato, presentato in modo che lo stesso porgere sia una sorpresa.

Il dono colma qualcosa che manca nel quotidiano: la meraviglia dell’attenzione gratuita. È un pezzo di sé stessi che viene ficcato nel profondo, che non si riporta alla comprensione perché corrisponde a qualcosa che dovrebbe essere nel vivere ma che l’abitudine, la società, ha tolto per la sua potenza eversiva. Il dono è un atto rivoluzionario perché altera il normale svolgersi dei rapporti, li intensifica, li rende esclusivi e complici. Attorno a noi, per chi ci è vicino, il donare assume caratteristiche particolari. Gli oggetti divengono simbolici, sono fatica nel momento in cui sembrano -e davvero è così- aggiungersi al troppo che già ci circonda. Per questo sembra complicato trovare un dono che non sia già posseduto, o in sé banale oppure semplicemente utile.

Dovremmo considerare che il dono è anzitutto rappresentazione, gioco, unione profonda dell’immaginazione con un oggetto e rappresenta l’interpretazione di un bisogno proprio e di chi lo riceve. I doni che restano, che non passano nell’oblio sono proprio questi, perché indovinano qualcosa che unisce nell’assenza e non sono un obbligo. Cose piccole diventano grandi e non saranno cedute facilmente perché sono divenute parte di sé.

Che fine avrà fatto il mio cavalluccio? Di sicuro non è stato soverchiato da altri giocattoli, ha cavalcato a lungo e ha immaginato battaglie e foreste, ha corso per prati sconfinati e si è spesso rintanato sul comodino vicino a me, per fare compagnia. Si è consumato quel poco che è bastato a rivelare la sua anima di ferro, poi è sparito all’improvviso per correre felice da un altro bimbo. A quel tempo i giocattoli passavano di mano in mano appena c’era modo di non farne sentire la mancanza. Al suo posto è arrivato un libro di fiabe e una palla rossa, entrambi cari ma un po’ meno amati.

E qui dovrei rivelare come poi ho interpretato a mia volta il donare. Credo di aver attraversato tutte le varie fasi che si accompagnano a questo gesto, dal dare ciò che mi era piaciuto molto e che pensavo trovasse altrettanta considerazione in chi lo riceveva. Erano libri, autori spesso strani e musica, anch’essa con qualche caratteristica particolare. Oppure era qualcosa che doveva celebrare l’importanza di un accadere e restare come punto di riferimento. O ancora qualcosa di inusitato e strano trovato in un viaggio. E anche l’utile oggetto è stato regalato come modo per rendere più semplice la vita. Di tutti questi doni ciò che veniva dal profondo e ha incontrato l’altro è stato raro. Ho lasciato spesso che ciò che interpretava me diventasse dono e questo non era il modo migliore per mettere assieme l’ assenza che il dono colma. Non era facile uscire dal sé superficiale e andare a quello che ci univa e diventava un noi. Forse qualche volta è accaduto e ne sono stato immensamente felice. Felice insieme a chi manifestava meraviglia e felicità ed ero io che venivo riconosciuto in quel me che non rivelo facilmente: credo che questo sia il massimo che si possa chiedere a chi ci ama.

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