La fine della civiltà (o del mondo) si riferisce alla tua civiltà, come la fine di un amore (di un contesto affettivo) è la fine del tuo amore.
La misura del proprio territorio affettivo, intellettivo, operativo diviene la misura del mondo, di ciò che si percepisce come conoscibile e che, quindi, può avere una relazione possibile, importante.
È l’abitudine che erode (quando un nome proprio diventa verbo c’è sempre qualcosa che inciderà sulla carne dell’anima) il nostro perimetro, gli impedisce di allargarsi e quindi di riflettere, ossia di vedersi. Al contrario dell’hambitus, del luogo delle meraviglie dove si coltiva la crescita, il tempo e la meditazione, il cerchio dove si esercita l’abitudine la corrompe in moda, in atteggiamento prevalente che non distingue più e toglie la fatica del capire e della diversità. Così l’amore si trasforma in ripetizione (anche nella ricerca del per forza differente c’è ripetizione) sino al prevedibile e alla noia.
La civiltà finisce per incapacità di essere altro che esercizio di potere verso qualcosa di conosciuto. Le manca una meraviglia, una spinta ad essere di più e oltre e quel più e oltre è un processo personale e collettivo perché ha bisogno di comunicare ciò che si è compreso.
Le civiltà muoiono per la noia del potere ad esercitarsi oltre la forza, l’imperio. Annoiano per indifferenza e ripetitività esattamente come la fine dell’amore.
Che riflessione interessante…