Le camere d’albergo si assomigliano tutte. Anche quelle a cinque stelle. E’ l’odore che non va via. Odorano di moquette anche se non c’è. Ma forse è solo stanchezza. Nella stanza del solista non mancano mai i fiori, all’inizio coprono l’odore, ma poi quando si è stesi si sente. Dev’essere l’odore di non avere un luogo. Un luogo vero, non la casa. La casa c’è. Bella. Ricordo la casa di Rostropovich a Mosca, era un intero palazzo, comprato un pezzo alla volta e riempito di ricordi e di desideri avverati. Però, forse è stata più casa sua quel concerto ai piedi del muro di Berlino appena abbattuto, con i ragazzi e la speranza attorno.
E’ difficile da capire, ma quando inizia un concerto, in una sala ci sono centinaia di persone, spesso ben più di mille. Sono sedute a fianco le une alle altre. A volte si conoscono, a volte sono stati messi assieme dal caso. Ogni testa pensa per suo conto, ha problemi, vita e desideri suoi. C’è l’attesa del concerto, spesso si parla perché non si sa stare in silenzio, comunque il brusio, le risate, gli stessi silenzi, attendono e intanto pensano ad altro. Poi quando arriva il solista, c’è l’applauso liberatore. Chissà che significa quell’applauso, forse è il benvenuto, la spinta di incoraggiamento, l’espressione dell’attesa. E quando inizia il concerto, c’è il silenzio, ma l’attenzione non è immediata. Quelli bravi, solisti intendo, catturano subito l’attenzione, gli altri fanno fatica. Per un poco ci sono i pensieri personali e non c’è estraniamento di chi ascolta. Accade anche quando c’è un buon oratore, ma con la musica è più difficile, perché la musica lascia pensare. Il solista lo sa e quando inizia deve isolarsi, pensare a sé e alla musica, non a chi ascolta. E’ una questione sua, per questo il palcoscenico può diventare una casa, un qualsiasi luogo in cui si suona, può essere una casa, ma non quella stanza d’albergo. Quello è il ricettacolo dell’ego ipertrofico, dei dubbi che ci sono, prima e dopo ogni prova, della stanchezza, dei mali veri o immaginari, del tempo dopo l’esaltazione, della sconfitta, della gloria di chi ha ascoltato. Ma non è una casa.
Questa sera Radu Lupu ha suonato Schubert e Schumann, ha stupito e attratto, ha riempito di vita propria le note di due secoli fa, ha aperto squarci nelle convinzioni, ha messo in discussione punti di riferimento. E’ stato grande. Aveva male alla schiena e si vedeva. Camminava con lo stomaco in avanti e non si piegava, chissà quanto di quel dolore è finito nelle sue mani e si è trasformato in un nuovo modo di vedere la sonata in fa maggiore, oppure i Kinderszenen. C’erano scoppi di note e pianissimi. Non li ricordavo così, ero abituato all’interpretazione morbida e romantica. Poi mi è parso che questa fosse l’interpretazione romantica e le altre un po’ slavate. La testa si è svuotata ed io, assieme a moltissimi credo, abbiamo lasciato che la musica ci prendesse. C’erano i soliti colpi di tosse, i piccoli rumori che in un concerto non mancano mai, come se la musica tirasse fuori anche il disagio, il male che c’è dentro. Accade sempre quando c’è silenzio e nella vita convulsa che facciamo molto meno, significherà pure qualcosa.
Ho pensato che il solista è un grande artigiano prima che un artista, che il suo lavoro è il risultato di una fila interminabile di errori tolti dal risultato. E che quegli errori non generano il giusto, l’assoluto, il definitivo, ma che il risultato diventa a sua volta un punto da cui partire. E’ più facile con le parole, si tolgono o si gonfiano di aggettivi e alla fine qualcosa avrà una forma che sembra perfetta, ma le note sono quelle. E’ possibile agire sulla durata, sui tempi, ma alla fine non lasciano scappar via, sono un confronto perenne. E’ la loro forza e ciò che fa la differenza tra i grandi e i mediocri esecutori. Stasera anche se è stato davvero grande, avrei preferito che non applaudissero subito, in fondo il solista aveva fatto una fatica enorme per arrivare ad un punto, a un silenzio. Ecco avrei preferito si fosse rispettato di più quel silenzio. E che lui lo avesse portato con sé, in quella camera dove dormirà, come un segno, non di gloria, ma di condivisione profonda, e che pensandoci, stanotte, non ci fosse per lui quell’odore di albergo, ma quello di casa.
L’Artista è sempre un solitario. Ho conosciuto personalmente Rostropovich grazie a un violocellista carissimo e amico di entrambi Indimenticabile. Lo sarà sempre. La posizione dell’arte nella società emergerà come sfida a ogni omologazione,come bellezza imperitura dentro ogni rivolo e ruscello tutti riversati in quel grande fiume della bontà morale. Incipit a quella forza sovrumana che eresse la schiena di Lupu
e a ogni altro Artista consapevole del suo compito,quasi religioso,nella immediata visione d’impegno spirituale connesso a quell’incredibile vitalità sicuramente scaturita da dimensioni sconosciute di superiori piani. Ho scritto strano e male a causa di difficoltà con la tastiera del cell. Spero che il senso si sia compreso. Ciao Artista caro al mio cuore e ai miei sforzi… Mirka
Ho riletto senza la mia solita ingordigia. Pur restando valido ogni cosa detta anche tra i “pasticci”…ti chiedo scusa per l’invasività,ovviamente fuori dalle mie intenzioni e quindi inopportune. Saluti e tranquilla notte. Mirka (Bianca 2007)