Una tenerezza infinita per quello che eravamo stati, per le nostre difficoltà superate, per quelle messe da parte. Un perdonarsi l’insufficienza, l’inadeguatezza a ciò che era nostro e che era stato seppellito sotto cumuli di dover essere. Forse era tardi perché emergesse davvero, perché avesse quella funzione di cambiamento delle vite forte e radicale, ma già sapere che eravamo stati, mettendo in fila i giorni, le molte felicità che avevano fatto la differenza, ci diceva che era bello aver vissuto assieme.
C’era una lunga sequela di piccoli errori da perdonare con la tenerezza infinita di chi si è padre e madre, e se ci riconoscevamo in ciò che eravamo adesso era solo per questo riconoscersi negli errori, nella difficoltà, nel quotidiano così nostro, in una crescita che non era mai finita. Era un quieto parlare al soffitto, alla notte, al buio che dentro aveva una luce piccola e forte. E questo raccontarsi come si era stati davvero, e come non c’era mai venuto di raccontarci prima, veniva fuori come un flusso di vita che raccontavamo a noi stessi. Ci bastava ed era nuovo, no?
