gli storti con la panna

Da novembre fino a febbraio, c’era la possibilità di ricevere un dono improvviso. Era un moto di golosità di mia madre o un capriccio di mia nonna: mi prendevano per mano e mi dicevano: ‘ndemo a tore i storti (andiamo a prendere gli storti). Erano gli storti con la panna, cialde croccanti avvolte a cono da immergere nella panna montata, e da consumare in casa nel pomeriggio della domenica, oppure, ai tavolini, ben tovagliati, del gran caffè Sommariva. Anche se dovevo star fermo mi piaceva il caffè, con il suo caldo e il brusio alto di voci mescolate, le vetrine appannate che davano sul corso, il parlottare, ridere, fumare, tutto mescolato. Guardavo appoggiare le schiene sulle seggiole, come per meditare qualcosa e poi scattare verso l’interlocutrice per riprendere. Una grande varietà d’uomini e donne, nell’atmosfera calda, il vapore delle macchine per il caffè, il fumo degli uomini e delle ragazze. Come un respirare sincopato singolo e collettivo che si separava in momentanea comunità dal fuori dai vetri, dove le figure si distinguevano appena. Ed era tutto un entrare, uscire fatto di cappotti bordeaux, neri, blu, qualche rara pelliccia, trionfi di spinati, marroni e grigi per gli uomini. E lobbie, guanti, tra incedere frettolosi o veloci determinati dal freddo più che dalla voglia di sostare o tirar via innanzi alle vetrine sfavillanti dei dì di festa che stavano sul corso. Innocue esse, festa al vedere: i negozi erano chiusi, ma perniciose per i desideri che riuscivano a sollevare, per i buoni propositi, per le attese che avrebbero creato. E argomento di conversazione, estensione a ciò che accadeva nella città, confronto tra ricchi e poveri. Perché questa era l’essenza del discutere sociale, ovvero ciò che avevano i ricchi e ciò che avevano i poveri, lì dimostrato e possibile o impossibile. 

Di tutto questo capivo poco, per me la ricchezza era quella sorpresa inattesa della sera e così immergevo il primo storto croccante nella panna densissima e riempivo la bocca di dolcezza. E ancora, ancora, finché nella ciotola di vetro restavano solo le striature bianche, che non si dovevano raccogliere col dito perché non era creanza. Mica si mangiavano gli storti per fame, ma per piacere, e la sazietà che inducevano era solo un effetto collaterale. Dagli storti ho capito che il piacere dava sazietà e rompeva consuetudini, il pomeriggio della festa sarebbe stato allegro, la cena il di più distratto, che si poteva mascherare di inappetenza.  

Chi mi conosce sa la mia ammirazione grande per Kleiber, la gioia e l’autorevolezza che c’è nel suo gesto di direzione, mi affascinano come rappresentazione del vivere. E’ la competenza di chi non si dà oltre quanto vuole: sazietà ma alle regole di chi dona.