A volte penso che i carichi, presi con grande insensatezza (la generosità è tale), siano eccessivi. Lo sono perché projettano un’ombra sul mondo, sul tempo, su ciò che si vede.
Ribellarsi per tutta la vita alla schiavitù delle cose, al loro ingerirsi nella vita, proprio per il senso del dovere che merita la funzione che ricopriamo, significa rispettare le regole, ma non impedirsi di vivere. Forse si cade in altre costrizioni; penso a me che, coltivando le mie passioncelle, ho direzionato la nave tenendo equilibri che poco c’entravano con una visione usuale del presente, del mondo. L’essere fuori in realtà non pesa, è una scelta. E’ il folle che non sceglie la sua follia, ma la diversità non è un marchio d’infamia tra gli eguali, è una specialità, un seguire il demone, o il sogno che questo produce. Il problema, per non pochi, è proprio quello di avere un sogno, di alimentarlo, di svegliarsi, fare, e poi nuovamente sognare.
Qualche giorno fa, altrove, parlavo del sogno come generatore di passioni, credo sia davvero così, ma non sopravvaluto le passioni, hanno troppa letteratura in questi tempi e modificano poco le vite collettive. Soffrono della stessa sopravvalutazione dell’emozione che diventa il modo per sgravarsi di obbiettivi più ampi e faticosi. Ma pur ridotte passioni, emozioni, hanno comunque bisogno di un flusso in cui manifestarsi, una sorta di recinto in cui possono eplicarsi, correre. E parlo di passioni che non sono la soddisfazione del desiderio, del giorno per giorno; no, parlo di ciò che si può mostrare senza tema, perché è in sè chiaro, parla della diversità e della sua continuità e così ha un ambito in cui confrontarsi. In fondo quando raccontiamo (una parola terribile, che non sopporto, è il continuo uso del termine narrazione), ci sono almeno due realtà che si uniscono, quella delle nostre urgenze interiori, quelle che ci fanno star bene o male, e quella delle urgenze esteriori, con la loro violenza e scarsa creanza.
Quando lascio che l’urgenza esteriore mi espropri da me, allora non ho più equilibrio, cerco ciecamente la medietà, il confondermi nell’essere eguale perché questo è rifugio, è riposo. Ma non posso permettere che l’esterno ammazzi la capacità di sognare, di generare passione; non posso permetterlo perché ne morirei in ciò che ho di vero e quello che rimarrebbe sarebbe poca cosa: un codice di regole banali.