Leggendo tra le parole, gli spazi, scrivono dall’alto verso il basso, scie che colano tra significati, la traccia dei silenzi.
Mi piace pensare che esista una cultura del silenzio che si trasmette e spostando una lettera, una virgola, un punto anche il silenzio si sposti e racconti d’altro. A chi? All’anima che ascolta, forse, e ha bisogno di sentire che altri odono lo stesso silenzio. C’è uno scrivere perfetto privo di significato per l’emozione. Genera un silenzio sgomento, da assenza. Se ci pensiamo, molto attorno, e anche in noi, mira a questa perfezione. Una sorta di libertà dalla tirannia del sentire. Dove riluce la razionalità, il coltello compie il suo dovere, seziona e guarda, finché alla fine si accorge che ciò che osserva gli sta morendo tra le mani.
Forse per questo ho bisogno degli spazi, di anfratti in cui riposare ciò che vuole parlare, convincerlo che sentire è meglio e suggerirgli che il silenzio è la forma somma del sentire. Le parole hanno simmetrie strane, toccano appena quello che sentiamo e come appunti evocano. Il sogno di chi scrive è emozionare, trasferire un contenuto attraverso un mezzo incerto e approssimato, ma terribilmente evocatore. Quello che io sento e trasmetto è diverso da ciò che prova chi mi legge, questa qualità è riservata ai grandi, ma se supero la paura del sentirmi solo in una stanza vuota, la vera paura di tutti gli umani, posso tentare di condividere un silenzio. Ascoltare prima di dire.
Qualche giorno fa mi veniva raccontata una storia, dolorosa e vera. Mi sembrava di capire, tutti abbiamo cose che possiamo sovrapporre e che abbiamo sentito come uniche salvo poi sentirsele raccontare da altri. E quella storia, come tante, era zeppa di parole, prima buone e poi irate, sentimenti scarnificati e portati allo scoperto, mostrati come ferite. Le parole riempivano la paura che tutto si frantumasse davvero e a me sembrava, invece, servisse silenzio. Poi mi è tornata a mente una canzone, che descrive qualcosa a cui ci si aggrappa quando finisce un sentimento e per resistere si ribalta sull’altro il ricordo come un’arma lenta e sicura. E si dice, si racconta, si minaccia perché ci si sente vilipesi e c’è il bisogno di attribuire una tale definitività a ciò che si è vissuto che possa far impallidire tutto quello che verrà dopo. Si sa che la passione riprenderà, che l’esperienza nuova sembrerà sommergere tutto ciò che c’è stato prima, ma come una maledizione si vorrebbe tornare a mente quando c’è ricordo e silenzio. E il silenzio che non si è stati capaci di usare come lenimento reciproco, di condividere come dolore, poi dovrebbe diventare l’estrema arma di chi si è sentito lasciato. Si pensa che nel silenzio ci sia la nostalgia e il rimpianto.
Io credo che ci siano questi momenti nella vita, ma che siano davvero propri e che ogni silenzio, se non c’è qualcuno con cui condividerlo e scambiarlo, diventi un tratto personale, una ricostruzione infedele del proprio passato che sola ci appartiene. Ma nel vivere quotidiano il silenzio ha altre funzioni, toglie il rumore che sta attorno come primo effetto e ci riporta a noi. Sembra banale, ma per non sentirci soli abbiamo bisogno di rumore, così si confonde il silenzio con la solitudine. Il silenzio invece supera la parola, riporta nel profondo, ci mette davanti non al passato, o almeno non così di frequente, ma a ciò che siamo e potremmo essere, quindi contiene il futuro. Per questo nel condividere un silenzio di parole si può scambiare molto d’altro e le parole sembrano disturbare con la loro imprecisione. Questo dicevo, non creduto a chi mi raccontava la storia, che c’era bisogno di condividere una fine con il silenzio. Ma non ero io il ferito, potevo discettare sul silenzio, mentre le parole scagliate erano ben più lenitive, forse anche aiutavano ad elaborare.
Ciascuno ha una sua via e una sua paura per il silenzio, e dal poco che capisco, mi pare che esso contenga molto di me e dell’altro con cui condivido. Per questo cerco gli spazi nel discorso e vorrei capire ciò che davvero mi si vorrebbe dire, cosa si agita e cosa spinge verso di me.
