miserere

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Si può essere atei, agnostici, ma non indifferenti in questi giorni e a chi è stato educato nel cristianesimo comunque vengono pensieri legati all’uomo, alla sua sofferenza. I credenti sentiranno cose diverse dalle mie, ma basterebbe pensassero che il Cristo non ha dato ai cristiani il monopolio della sofferenza dell’uomo e neppure la sua comprensione esclusiva, per capire che il messaggio è molto più legato alla terra che al cielo, all’uomo piuttosto che alle religioni. I credenti sentiranno cose diverse dalle mie, forse si soffermeranno sul misterioso legame che fa uccidere un dio agli uomini, cosa che affonda le sue radici negli archetipi umani, oppure emergerà la morte dell’anima e la sua resurrezione nell’adesione ad un sacrificio che è un dono totale. Forse, non lo so. A me viene in mente la sofferenza che ci circonda, e la descrizione del dolore del Cristo, inequivocabilmente umana e così ben interpretata da Saramago, oppure quella dei vangeli prima della resurrezione. E’ la sofferenza la costante dell’uomo, con una domanda che cerca ragione e che persegue la sua uscita da una condizione che non è priva di alternative. E nel mondo la sofferenza non conosce credo o appartenenza. Forse soffre meno un musulmano o un animista, la sua comprensione del dolore è meno universale? E restando più vicini, anche in questo mezzo così virtuale e doppio, non è forse in ciò che emerge come sofferenza che si riconosce che c’è dell’umano oltre la virtualità? Mi colpisce molto la lettura di un dolore della mente, la richiesta, che è solo di ascolto, di una vita che è stata piegata dentro, una bellezza che non ride, la sensazione che emerge della solitudine infinita e il baratro del presente che inghiotte l’amore banale, il sesso, gli anni giovani, il futuro possibile. Credo che questi giorni, come tutti i giorni, parlino della realtà, di ciò che potrebbe avere un rimedio, un’attenuazione e diventa invece rifiuto, paura di essere coinvolti. Ogni cuore è trafitto dalla propria notte, ma quanta speranza ci può essere se non c’è solitudine. E questo è l’altro tema che accompagna la sofferenza, la solitudine, i dolori muti, i dolori rimossi e senza nome. Per vivere ergiamo dighe, non si può vivere nella consapevolezza del dolore altrui oltre un certo limite. Fuori di noi un mare denso, cupo, rosso e senza luce, noi chiusi in una capsula di vita che mettiamo argine a ciò che ci travolgerebbe. Ma il dolore e la solitudine ci sono, sono attorno a noi e se non possiamo annullarle, basterebbe nell’essere contenti di ciò che si è, di ciò che si sarà, non dimenticarlo. Credo esista una religiosità laica, senza fedi e senza dei, in cui l’uomo emerge con tutta la sua finitezza in un impasto di dolore e gioia che si cuoce nel proprio farsi, nel destino che gli è possibile. Ma quanto sociale, quanto prevaricare, piegare, infliggere inutile aggiuntiva sofferenza sta attorno a questa fatica del farsi. Penso alla religiosità naturale che riconosce l’uomo e che vorrebbe rispettarlo nelle cose piccole e grandi, uscire dal turpiloquio dell’aggressività, riconoscere il simile e la sua capacità eguale alla mia di soffrire e di provare gioia, prima di vedere la sua diversità. Non basta, certo, per star bene assieme, per fermare i contrasti, ma almeno considererebbe che far male non è gratuito, che il male provocato è identico al male che si sente ed entrambi provocano sofferenza e solitudine ulteriore. In questo la riflessione di questi giorni potrebbe tracciare un astenersi, più che un fare, un comprendere più che un professare. Magari evitando il far male inutilmente, magari cercando di capire che le religioni non dividono se parlano dello stesso oggetto, ovvero l’uomo, che dio, per chi crede, viene assieme all’uomo, che capirlo ci permette di comunicare, di vederci e sentirci assieme, qui adesso, non in un luogo in cui l’accesso è vietato ai non addetti ai lavori. Un miserere rivolto all’uomo prima che a un dio, un miserere che tenga assieme, che porti fuori dal buio, che ci dia un senso comune.