Ho sempre creduto nella forza salvifica e lenitiva della parola. Prima della musica. Prima del gesto. La parola che porta all’altro il senso profondo di sé, o la leggerezza, o il riso. Ma la parola è anche dileggio, menzogna, travisamento del vero, offesa, distrazione, inutilità. Può veicolare tutto quello che sta tra l’amore e l’odio, due sentimenti che s’assomigliano molto nell’intensità, e qui è ancora significato anche se negativa, ma può scivolare da essi e farsi distratta, inutile.
La parola si rivolge ad altri e a sé. M’interessa la seconda specie di ascolto, ovvero il parlare tra sé. In questo parlare è contemplata anche l’assenza di parola, un modo alto di parlare che utilizza l’indicibile. E a questo si torna quando la confusione è somma, la stanchezza per il troppo rumore/decidere che impedisce di vivere ciò che si sente. La confusione è una caratteristica del nostro tempo così ricco di rumori/stimoli. Ha una connotazione appena negativa, come fosse un problema veniale e invece la confusione non permette di capire/rci, fa compiere scelte senza profondità, porta a confondere i valori.
Con fondere, con fusione, mettere assieme in una unione forte, fondere assieme. C’è bisogno di discernere, di pulire le parole perché ritrovino il significato che esse portano. Non è una questione estetica, si tratta di capirsi prima di capire. E questo ha applicazioni pratiche continue, basti pensare alla politica dove la parola perde significato, ha bisogno di precisazioni continue, di ritrattazioni, di nuove parole e soprattutto non esprime la speranza, ma la distruzione. Non il progetto, ma l’interdizione di esso. Non da tutti è così, naturalmente, ma troppo spesso si ascolta il vuoto anziché il silenzio. Anche nella vita quotidiana, nel lavoro, la parola ha significati di rumore. E si ripete e si svuota come se la comunicazione fosse fatta di ordini e di modi di dire, privi di sentimento sia i primi che i secondi. D’altronde se la parola è importante per noi, se ci ascoltiamo, se riusciamo a ridere di noi stessi e contemporaneamente a prenderci sul serio, quando parleremo con gli altri ci sembrerà di dare, più che di dire. Per questo un’offesa diretta alla persona è non ascoltarla, lasciare che la parola le si spenga sulle labbra perché non c’è attenzione. Meglio imparare il silenzio allora, esercitarsi su di sé, sentire che la parola come ci salva, ci perde, ci condanna alla solitudine. Che non è il silenzio dell’ascolto, ma il silenzio della disattenzione.
