La parola narrazione mi suscita moti di stizza, ripulsa.
Capisce la parola?
Tutti narriamo, l’abbiamo sempre fatto, ma non abbiamo inventato un genere; a volte spieghiamo, a volte ricordiamo, a volte raccontiamo quello che sembra verosimile, che suona bene. Ecco, credo che la narrazione quando diventa genere, si alimenti soprattutto del terzo genere, intrisa com’è di sentimento e fatti. Più sentimento che fatti e quest’ultimi, piegano il reale.
Non mi piace la narrazione pubblica, mi piace l’invettiva, il j’accuse. Se si parla di camorra, di mafia o della banda della magliana, bisogna evitare il genere letterario, oppure considerarlo tale, far capire che la realtà fa male, perché il pericolo di normalizzazione diventa enorme, come pure quello dell’emulazione. Ci sono t-shirt, felpe, cappellini generati dalla narrazione, idee conformi che non toccano la radice dei fatti, ovvero che l’illegalità è un male profondo, personale e sociale, che l’illegalità genera illegalità e sofferenza, ma soprattutto che l’illegalità è intollerabile.
C’è un limite al racconto ed è quello oltre il quale subentrano i fatti, i nuovi fatti. Si usa molto un’altra parola, che m’infastidisce, spesso legata a narrazione: civile. Coscienza, cerimonia, orazione, società, narrazione, ecc. come se il resto fosse un mondo a parte, non civile. Io credo che le grandi storie, le persone che l’hanno vissute non siano santi civili, sono le urne dei forti del Foscolo, ciò che illumina la notte, ma qui sotto ci siamo tutti con la necessità di vedere chiaro, di distinguere, di schierarci.
Adesso infuria la narrazione civile, credo facciano un po’ i furbi, il discrimine è lieve, la tentazione della nicchia calda, forte; bisogna stare al di qua, comportarsi.
Capisce la parola? Comportarsi di conseguenza.
Non abbiamo bisogno di santi civili, abbiamo bisogno di comportamenti generalizzati che sorreggano i soldati in prima linea. Chi racconta le retrovie, le storie di ordinaria umanità di Napoli o Casal di Principe, chi sostiene oggi i successori di Peppino Impastato, o di Ambrosoli? Prendo Loro ad esempio, ma, in testa, tutti abbiamo i nomi dei caduti in prima linea, molti ce li siamo dimenticati perché sono stati troppi e perché nessuno li ha santificati, fossero giudici, parlamentari, poliziotti, giornalisti, persone per bene. Anche per le medaglie d’oro c’è una narrazione che piega i fatti ai sentimenti.
In questi giorni c’è il programma di Saviano e Fazio, l’ho visto a tratti, è un programma televisivo, non diamogli un significato eccessivo, se fosse due volte alla settimana per 6 mesi, dopo il primo mese lo guarderebbero in pochi. I soliti, quelli che pensano in un certo modo, e perdonano le ripetizioni, cercano ragioni.
C’è un bisogno forte di segni, di unghiate, cose che la narrazione racconta con dita di velluto. Se Grillo fosse in tv, e non sulle piazze dove anche i pidiellini lo vanno a sentire, sarebbe meno della Gabanelli.
Vi siete mai chiesti perché la narrazione rappresenta il limite dell’impotenza? Perché il potere è più forte oppure perché la narrazione, indigna quietamente, attiva quel senso di sdegno che spinge più ad astenersi che a fare ? La mia risposta è sulla seconda opzione.
La sinistra soffre di un complesso di castrazione culturale e informativa che ai tempi del PCI non aveva. Strano vero? Se si narrasse di meno ed accusasse di più, il suo popolo si sentirebbe meno solo, con il suo bisogno di allegria, di obbiettivi e politica, di entusiasmi, di commozione. Per questo la narrazione non serve al cambiamento se non quando diventa carne e sangue del fare, dell’esserci, del partecipare.
Con la narrazione Dreifus sarebbe ancora in galera e Zola avrebbe una rubrica su le Figarò.
Capisce il concetto?