C’è un caffè, ma in realtà c’è sempre stato, oltre il quale la bocca muta sapore. C’è anche un fumare, che un tempo era sigaretta ed ora mezzo sigaro, oltre il quale il piacere finisce. C’è un bicchiere, quasi sempre di rosso, oltre il quale non s’aggiunge nulla, ma anzi si toglie. E non importa che non si beva caffè o alcoolici, o si fumi, qualsiasi cosa ci piaccia c’è sempre un limite oltre il quale il corpo si ritrae. Si rapprende il sé nella mente, e genera una chiusura che muta il pensiero, prima disteso, in sensazione di limite. Quindi un argine all’eccesso, che ovunque trova una sua linea, e la distingue nell’uso di se stessi, non della propria libertà. Un argine insito, com’esso non dipendesse da noi o dalla nostra volontà, ma da qualcosa che ci conosce meglio e più a fondo. Quindi la sfida è portare il piacere a quella linea, ma non rapprendersi nel rifiuto. Restare aperti a ciò che ci succede oltre ogni difesa che non sia quella, appunto, del limite che possediamo. Una ragion pratica della libera temperanza per esplorare quella zona di nessun colore che non conosciamo e che pure è ben presente in noi. E non è l’idea del provare o dell’esperienza in quanto tale, è altro. E’ simile ad una casa d’estate in cui a sera s’aprono le finestre, e non c’è fretta a chiuderle, anzi è bello che alcune lascino entrare i sapori della notte, perché non è troppo il fresco che ne entra, ma anzi esso s’aggiunge a noi, ci accarezza e rende consapevoli d’essere parte d’un mondo più grande a cui è dolce affidarsi.
C’è una linea del caffè che definisce – e definiva – la stanchezza. Quante volte l’ho superata immemore e consapevole, vantandomene spesso e contando sull’invincibilità del corpo, sul suo abituarsi alla fatica, sul fatto che bastava poco per essere pronto a nuove prove. Superavo la linea e non ascoltavo ciò che già sapevo, cioè che le sensazioni si sarebbero attenuate e tutto sarebbe diventato una poltiglia grigia in cui l’importante era finire. Ora capisco meglio che non è la forza quella che porta a superare il limite – e neppure il coraggio o l’abbrivio – ma la mancanza di uno scopo che ci comprenda, una confusione su chi davvero siamo. Arrivare agli anni tardi e non esserci almeno intuiti, arrivare ad una ginnastica di aperture e di chiusure basate sul superare in continuazione il proprio limite non è mettersi alla prova o essere vitali, ma essere in un pantano in cui è difficile procedere verso di noi. E’ pensare troppo a noi, essere auto centrati come è stato detto, se si capisce di più ciò che non ci soddisfa nel superare il limite?
Nell’avvicinarmi alla linea del caffè, ora cerco ciò che mi consentirà di rientrare, l’ultima tazzina, l’ultimo bicchiere, l’ultimo boccone, che sono poi immagine dell’ultimo sentire, dell’ultima emozione, dell’ultimo entusiasmo. Un attimo prima e restare aperti, ecco il governo di sé senza rinuncia. Dire a sé e agli altri la propria regola vitale che consentirà di accogliere senza reticenze. Prima era a notte, ora nella sera, cerco l’ultimo caffè del giorno. Quello che ancora mi dà piacere e alla bocca non muta sapore.
