disperazioni amalfitane

Il tono della voce è ricco di armoniche, racconti che vai a portare la tua disperazione sulla costiera amalfitana. Una decina di giorni, a casa d’amici.  Quando vedo il tuo numero, temo una telefonata pesante, ne hai fatte tante, con la voce alterata, con tratti di cattiveria che mi stupivano perché mi facevano pensare a quanto so poco giudicare le persone, e invece no, oggi mi racconti di Amalfi, Vietri e prossimi viaggi per il mondo, anche della tristezza che hai, ma con una voce allegra. Penso che quando si viaggia, si reagisce e la tristezza non annichila più, non impedisce di vedere. Così capisco che i problemi sono diventati relativi, me par ben, come si dice da queste parti. Penso che forse hai già una nuova dimensione e che a volte ci si preoccupa troppo, che le cose si dovrebbero lasciar andare per il loro conto. E’ vero il detto che se pensi di salvare una persona ti dovrai far carico della sua vita. Lo faceva anche Totò in un film. Prima veniva salvato e poi s’ installava in casa del salvatore e se ne impossessava con la minaccia di ripiombare nella disperazione. E la disperazione, senza reazione, è una violenza.

Ma io ho smesso da tempo di pensare che si può salvare qualcun altro, al più si può dare una mano. Ma anche in questo caso bisognerebbe riflettere perché l’aiuto magari non è quello richiesto. Sapessi quante volte mi sono ricreduto al riguardo e mi sono rimproverato perché avevo presunto qualcosa che facesse bene. Poi il rifiuto, l’ingratitudine ostentata m’hanno fatto capire che la miglior cosa è dare e non pensarci più. Dare e sparire.

Mi dici che non hai tempo e stai partendo, sorrido, hai chiamato tu. Continuo a pensare che davvero ascoltare è l’unica cosa da fare e lasciare che tutto proceda come deve. Il viaggio ti farà bene, il sole di più. E mentre ancora ci penso al sole e alle piastrelle di Vietri, capisco che ho imparato qualcosa: tendere la mano non è per sempre, che una strada le gambe disperate, la troveranno. Al più basta ascoltare e tenersi stretti i propri problemi, sono più che sufficienti.

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Essere lì dove c’è la luce e tra il nero delle nubi. Lì dove il tempo cambia e torna ad essere, dove lo squarcio diventerà blu e s’annidano le soluzioni.

Lì e capire il cambiamento e la tempesta per gettare ciò che è inutile al volo. E lasciare, non rottamare (rompere per non usare più), ciò che è vecchio, senza rimpianto per l’età dell’oro, perché adesso è l’età della pioggia e nessuno resterà davvero asciutto.

Neppure quelli che dalle finestre guardano e indicano una direzione con le dita, muti e prigionieri del vetro tiepido delle loro anime.

Lo so, bisognerebbe sbattere la testa contro la pietra di ciò che è inutile per non aver capito. Ma che c’era da capire, era lì, tutto davanti ai nostri occhi diventati vecchi anzitempo.

Non confondere l’assennatezza con il possibile, la lentezza con il vecchio, l’equilibrio con la compatibilità. Lo ripeto come un mantra che salvi il vuoto per volare e ciò che dovrà essere riempito. 

Eppure non sono certo che ci siano molti che vogliono vivere quello spazio tra le nubi, i più s’accontentano di desideri a colazione e cena e intanto dicono: fate, cambiate tutto, e non disturbate più che ora abbiamo altro da fare.