il corteo

Le strade sono le stesse. Quasi. Il rumore di un corteo è fatto di slogan e di voci tranquille, quasi sommesse. In un corteo c’è molta gioia oltre che rabbia. Anzi direi che quasi sempre prevale la gioia. Sul corso sfilano gli studenti, gli autonomi, bandiere variegate, striscioni, qualche bandiera anarchica. Qualcuno di quelli che sfila, ha la mia età. Li guardo perché non hanno mai lasciato quella che è sembrata l’acquisizione della vita, ma non c’entrano adesso, raccontano d’altro, sono una memoria che non ha riscontri. Al centro del corteo c’è un camion con due immense casse che trasmettono musica rap, ad altissimo volume, spesso si inserisce una voce, che, con la cantilena delle manifestazioni, indica obbiettivi, slogan, ingiustizie in corso, appelli. Poi riprende la musica. I ragazzi sembrano lieti, c’è il movimento degli studenti, tanti hanno un fazzoletto, una bandiera, un cartello. Molti loro colleghi stanno riempiendo le pizzerie al taglio, i kebab, le pasticcerie abbordabili, qualcuno saluta e si sfila. Davanti ci sono dei ragazzi con dei grandi rettangoli colorati. Sembrano di legno leggero, sono scudi per una testudo che da qualche parte troverà pure una ragion d’essere. Poi li vedrò sul video di repubblica disfarsi sotto due cariche di polizia. Ho pensato a Pasolini quando le ho viste, quando parlava dei celerini come i veri rappresentanti del popolo, del proletariato. Adesso non condividerei quell’articolo, i poliziotti hanno un mestiere, un lavoro, molti di questi ragazzi non l’avranno. Sono loro adesso i portatori di richieste logiche senza diritti. In stazione parte una carica della polizia, la guardo e mi chiedo se era necessaria. Non capisco, mi pare violenza in più. So invece che questi ragazzi non sono rivoluzionari di professione, so che cominciano a capire che il mondo è sempre più comunicante, ma loro sono sempre più soli. In piazza c’è il comizio della CGIL, molti pensionati, molte aziende in crisi, cartelli, bandiere rosse. E’ pacifico tutto, la lotta sarà lunga, è lo slogan che circola per la piazza. Bisogna durare un minuto più dell’avversario. Lo si impara in ogni trattativa sindacale. Chissà se ci sarà tanta pazienza.

bora

Fino a stanotte speravo di ridacchiare dei metereologi, perturbazione dal Portogallo, dicevano, con forti venti ed abbassamento delle temperature. I soliti pessimisti, pensavo, ma se è tiepido. O almeno, quasi tiepido, sì è vero, la pioggia insiste a scrosci, ma il forte vento non c’è. Poi stanotte la bora ha riacceso il ciocco nel camino, ha flagellato gli alberi scuotendoli per far capire che la stagione è cambiata davvero e che le foglie è ora di lasciarle. Adesso i giuggioli, i cachi, il mandorlo mostrano frutti tardivi non raccolti, molte foglie resistono, ma la battaglia è perduta. Tra poco sarà la rugiada e la galiverna ad ingentilire ciò che rimane. L’erba vira verso il verde spento, tanto vale adattarsi. Guardavo le bandiere che indicano la forza e l’indecisione della bora. Sembra un vento circolare, da queste parti dovrebbe venire da est-nord est, siamo pur sempre nel grande golfo che da Trieste si chiude a Venezia, invece ci sono raffiche da ovest, refoli da sud (refoli si dice da queste parti; è una bella parola refoli, sono rivoli di vento, forti e consistenti, ma limitati di ampiezza, come ruscelli impetuosi d’aria che prendono ed avvolgono), che improvvisamente tacciono e vengono soverchiati da ondate di vento da nord est. Attacchi e calma, la bora è così. La penso a Trieste dove le barche non s’azzardano d’uscire, che chiude gli uomini nelle case o nei caffè, al caldo, e all’uscita prende i foresti come me, li blocca increduli, attaccati ai corrimani nelle salite, come in ferrata, mentre vecchiette sottili risalgono tranquille verso casa. La penso a Venezia dove oggi c’è acqua alta, mica cose importanti, 125 cm, ma quanto basta perché ci si incolonni sulle passerelle, la laguna sciacqui san Marco, la città prenda, fuori dai percorsi affollati, il suo carattere malinconico e lamentoso. I turisti ridono, hanno una Venezia insolita, ne hanno sentito parlare della minaccia del mare che vuol riprendersi la città, gli sembra di vivere qualcosa di irripetibile, una nave che affonda. Non sarà così, la città si salverà, ma come? Ecco sul come e su cosa resti della città e dei suoi abitanti ci sarebbe molto da dire. La bora spazza tutto, anche i discorsi, rende la pioggia quasi orizzontale, inutili gli ombrelli, lava uomini e palazzi, indifferentemente.

Avevano ragione i metereologi è autunno, anche se non fa il freddo previsto, restare nelle case e al caldo porta un tepore interiore, pigro, di luce e pensieri. Nelle pasticcerie che hanno la creanza di ricordarsi dove sono, le favette dei morti fanno bella vista con i loro colori. Il loro sapore si scioglie sul palato, si sente la mandorla, che non invade (siamo a nord), lo zucchero a granelli, la consistenza morbida e croccante. E’ possibile avere una consistenza morbida e croccante? Certo se c’è la bora che è un vento circolare, saranno pur possibili diversi sapori nello stesso tempo.

E’ la bora che ha preso la scena e scuote gli alberi, è la bora che rinchiude nelle case, è la bora che ricorda che l’estate è andata, che ci saranno mesi in cui il sole sarà un dono da cogliere, prevarrà il grigio, il marrone e l’azzurro intenso, quando il cielo vorrà donare il suo occhio agli uomini. Si vive d’autunno e s’attende, imparare la pazienza dà molte soddisfazioni in quello che verrà.