Tortuoso, doloroso e pesante. Mi trovavo con questi tre aggettivi, alle cinque del pomeriggio di domenica, la non ora per eccellenza. Fuori un cielo di sera invernale, anch’esso indeciso e piovoso, insomma pessima compagnia, ed io lì, a chiedermi che ne sarebbe dei miei occhi senza termini di paragone, o ancor più senza speranza, ché questo sono poi gli aggettivi: misura della speranza, chierichetti di funzioni, senz’officiante, per religioni del bello ridotte a luogo comune.
Ed allora che farne di questo senso negativo che questi poveri disgraziati aggettivi si portano dietro e come rovesciarlo in un roseo orizzonte? Oltre il cielo plumbeo e l’apparenza, oltre la superficie, oltre e basta.
Il tortuoso del ragionare non era forse il mio bighellonare da flaneur, da perditempo, che non ha altro di meglio che attendere il caldo del letto e il conforto del sogno, quindi un tortuoso da gigione, simpatico perché disposto all’interlocuzione, alle culture del dubbio, con tempo a disposizione ed energia da spendere, perché è un po’ stupida l’energia che cerca il cammino più breve, risparmia un sacco di tempo di cui non sa che farsene e soprattutto con tutta quest’ansia di linearità non coglie nulla, non si perde in quelle sacche così interessanti che sono i meandri dove lussureggia l’erba dell’alternativa. Non si dice un po’ annoiata: andrò di qua oppure di la’, mi perderò oppure alla fine la strada si troverà ? E non è questa, in fondo la lezione dei fiumi di pianura, che per andare al mare distendono pigramente i meandri, bighellonano per la pianura, portando acqua, ora da un lato ora dall’altro, e soffermandosi in città o fattorie, non fanno distinzioni e neppure si peritano di far mancare la loro opera ad altri usi, se ne possano assicurare buona riuscita. Generosi e bighelloni i fiumi, che ben altro sarebbero se nella loro corsa seguissero una retta foriera di disgrazie, splendente, sì, di lucida razionalità come una cicatrice, ma gelida e scostante da sé. E ancora sarebbero necessariamente costretti da alti argini per impedire il dilagare dell’energia che si spende nei meandri, e quindi neppure porterebbero la lietezza del luccicore d’acque, il loro rinfresco agli uomini, affannati come sarebbero in una corsa al mare, senza ascolto d’altri che del proprio ansare. I fiumi vanno e fanno il minimo percorso nella minima resistenza, perdono il tempo necessario, sono in equilibrio con ciò che sta attorno, non c’è quindi un insegnamento nella tortuosità ? A domanda retorica, si dovrebbe rispondere a monosillabi, ma la riflessione è sulla capacità d’essere in equilibrio e quindi se la tortuosità non è pretesto, bisogna avere la gioia umile di seguirsi e percorrere i meandri lasciandosi attrarre non dal risultato, ma dall’utile a sé. Se volessimo discutere su quanto questo peserebbe sull’economia arriveremmo a conclusioni apparentemente disastrose, ma io credo che il lavoro degli uomini che pensano ad altro che non sia solo il lavoro, sia più utile della corsa affannosa e della competizione esasperata. Ma questo è divagare, ossia un verbo che non era in nota stasera.
Tornando ai nostri maltrattati aggettivi c’è il doloroso. Se si pensa alla condizione, vi troviamo già ansia di riposo, dopo il lancinante del dolore pieno, e nuovamente speranza e possibilità d’un preannuncio di moderato benessere. Potrà passare, sembra dirci, fa male ma di certo passerà. Si dovrà trovare il modo di mutare stato, uscire da una condizione che potrebbe diventare comunicazione e modo d’essere; perché tale può diventare il dolore se non si movimenta, e respira troppo della sua aria greve, zeppa d’umori, tendente a vedere sé dolente come centro per sentirsi, ma passerà. E il dolore questo è, ovvero un sentirsi acuto, e misericordioso, e ambiguo, che indica due vie: quella del mutare la propria visione di sé è del mondo e quindi uscire dalla sua condizione verso una rischiosa possibilità di star bene, oppure il rimanere in un bozzolo protetto che trattenendo le energie e facendo dell’immobilità una condizione permanente non s’espone più al rischio del lancinante, ma neppure della felicità. La prima strada è faticosa, però respira aria pulita, la seconda vive in un’atmosfera tiepida di malstare, che permette di dire al mondo: ecco, non vedete che sto male, prendetevi cura di me, non minacciatemi, tanto non sono pericoloso, anzi ascoltate da me ciò che v’assomiglia, riconoscetelo e nel consolare me, consolate voi. Io resto nella mia condizione per permettervi di star meglio, di dirvi: ecco uno più disgraziato di me, posso ritenermi fortunato. Preferisco l’aria e il camminare, e che il doloroso sia lo stato transitorio verso lo star bene. Preferenza che esclude l’autocommiserazione, ma non la misericordia e il perdono verso sé, anzi da questi traggo energia per allontanarmi dal doloroso e ricominciare.
Tornando all’ultimo degli aggettivi, resta il pesante. Aggettivo palestrato e forzuto, quando è lieto, mentre è faticoso nel quotidiano. Eppure dovrebbe indurre a pensare al termine della fatica, a quando la schiena si rizzerà e ci sarà un riposo che segue l’ obbiettivo raggiunto. Non è forse più lento il tempo del peso e più disteso e veloce, quello in cui, deposto ciò che gravava, subentra una sensazione di benessere che si trasporta a tutte le membra, e sembra far riscoprire piaceri inusitati in piccoli angoli che non si sapeva d’avere. Non è forse quello il momento in cui si apre una possibilità di riaversi per sé perché ciò che ci toglieva energia e pensiero finalmente e’ oltre le nostre spalle ed è qualcosa di fatto? E’ il senso della fatica utile che si conclude e, appena passata, ci consegna un tempo bianco tutto da scrivere, anche da non far nulla, ma tutto nostro. Un tempo della possibilità oltre la pesantezza del momento, di cui abbiamo buona esperienza se torniamo ai tempi dello studio e degli esami, se ripensiamo al verde e al sole che c’aspettavano appena oltre la fatica. Ed era questo il senso dell’estate che si ripeteva, oltre ai cicli del freddo, della costrizione e della luce elettrica, nel dirci che il pesante sarebbe finito e il leggero c’avrebbe portato in un vivere di bengodi. La pesantezza, insomma, si sarebbe riscattata in lunghe giornate in cui alternare il fare all’ozio, sarebbe stato libertà senz’obbligo. Un vivere così, tutto per se’. Credo che tutti continuiamo a sperare che ciò, prima o poi, si realizzi e che non sia solo il portare carichi che caratterizza il vivere, ma anche un andare leggeri, seguendo estro e passi, insomma una vacanza dall’obbligo, non dalla responsabilità.
Ecco che farmene di questi tre aggettivi nel pomeriggio della domenica e in quella che è stata definita l’ora in cui la festa finisce e già il peso della settimana s’avverte. Sovvertire l’ora, gli aggettivi, modificarne il contesto perché emerga ciò che spesso si rifiuta di vedere, cioè che abbiamo fogli bianchi e del buon tempo ancora da scrivere, ci appartiene, lo scriveremo e sarà un piacere .