
Penso che un’alta dose di con-passione sia possibile solo a chi è ben difeso o molto innocente. So che può apparire come un paradosso, ma patire l’altro implica dello stoicismo e del cinismo in dosi proporzionali alla sofferenza conseguente alle cauterizzazioni delle proprie ferite. La nobiltà d’animo ha poco a che vedere con le parole di solidarietà, molto spesso frutto di reazioni meccaniche, e così anche la magnanimità. Ciò non significa scegliere l’indifferenza o peggio il cinismo, ma capire quale è il limite che varcheremo e dove arriveremo, sapendo chi siamo.
Spesso ci si accorge di essere abbandonati dalle aspettative che abbiamo verso coloro a cui tendiamo la mano. Aspettative del tutto estranee al ricevente che riempiamo del nostro autoinganno e del frutto degli alambicchi della nostra fantasia. Tutto ego che vorremmo incisivo e fulgido in questo mondo ingrato. Non arriveremo mai alla quadratura del cerchio: non siamo capaci di investire affetto in qualcosa/qualcuno senza riporvi aspettative.
Confezionare autoinganni è un esercizio tipicamente umano.
io amo Jung in modo viscerale e attraverso i miei studi ti rispondo che il tuo discorso, se lo osserviamo da una prospettiva junghiana, per l’appunto, tocca alcuni nuclei fondamentali del rapporto tra Sé e ombra. Quando parli di com-passione, cinismo, aspettative e autoinganno, in realtà stai descrivendo dinamiche profonde dell’inconscio personale più che collettivo. La com-passione autentica, come la descriveresti alla luce di Jung, non è un sentimentalismo spontaneo né un eroismo morale. È piuttosto un movimento che nasce dall’incontro con la propria ombra: solo chi ha visto e integrato dentro di sé la ferita, la delusione, l’egoismo, può davvero patire con l’altro senza cadere né nell’idealizzazione né nel disprezzo. Altrimenti la com-passione diventa, come suggerisci bene, una “reazione meccanica”, una maschera che protegge l’Io da un confronto più scomodo. Il cinismo e lo stoicismo che menzioni potrebbero essere letti come forme di difesa necessaria dell’Io, che cerca di non farsi travolgere da un’eccessiva identificazione emotiva. In Jung, il rischio dell’inflazione emotiva è reale: perdere i propri confini può condurre non alla vera empatia, ma a una dissoluzione, a una regressione inconscia. L’illusione delle aspettative è, infine, perfettamente in linea con il meccanismo di proiezione che Jung ha descritto con tanta chiarezza: l’altro diventa uno schermo dove inconsciamente proiettiamo parti di noi stessi non riconosciute o non integrate. In questo senso, l’atto di “tendere la mano” spesso non è affatto puro: è carico dei nostri desideri inappagati, dei nostri bisogni di rispecchiamento, della nostra sete di essere “buoni” o “salvati”. Confezionare autoinganni, dunque, non è solo un tratto umano: è un passaggio inevitabile nel processo di individuazione. Solo riconoscendoli, senza giudicarli, possiamo riassorbire le nostre proiezioni e procedere verso una coscienza più piena, più capace di vero amore (che, per Jung, è sempre un atto consapevole, per niente cieco). Ti saluto e ti invito a non sentirti chiamato in causa dai miei testi. Ti autoinganneresti. Buonanotte.
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Grazie Nadine, ti rileggerò più volte per dire qualcosa. Per ora ho due punti di attrazione: la perdita del proprio confine come confusione e anomia. Esondare da sé. Il secondo è il riconoscere l’auto inganno senza giudicarlo, esserne parte passiva/attiva, con o senza cambiamento.
buona notte Nadine
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“Esondare da sé”: in quei momenti, il confine si assottiglia e l’inconscio prende il sopravvento, generando quella confusione di senso che tu descrivi come “anomia”. È lì che si perde la centratura, ed è proprio in quel vuoto che può insinuarsi la disperazione… o il germoglio di una trasformazione. Il secondo punto che tocchi è altrettanto prezioso. Riconoscere l’autoinganno senza giudicarlo è già un atto di grande consapevolezza: Jung avrebbe detto che è l’inizio dell’integrazione dell’ombra.
Non c’è guarigione senza accettazione, e non c’è accettazione senza la capacità di restare — almeno per un po’ — in quella zona grigia dove non sappiamo ancora se cambieremo, ma iniziamo a vedere. Essere parte passiva/attiva del proprio inganno è come assistere a un sogno da svegli: non lo possiamo forzare, ma possiamo osservarlo e, se restiamo con lui abbastanza a lungo, qualcosa cambia. E anche se non cambia nulla fuori, siamo già altrove dentro. Buongiorno Willy.
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Buon giorno Nadine e ancora grazie. Il cammino del vedere prosegue. 🤗
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siamo viandanti del pensiero, ogni passo nel “vedere” è anche un ritorno a sé. il dialogo è importante non per cercare risposte, ma per abitare meglio le domande.
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Molto spesso penso a quali siano i miei reali sentimenti nei confronti del male e della sofferenza che vedo nel mondo. L’ingiustizia mi indigna, la guerra mi fa schifo, parlo e scrivo in nome di certi ideali in cui credo e in piccola misura sono disposta anche a impegnarmi di persona, però alla fine continuo a vivere la mia vita, mangio mentre scorrono sullo schermo immagini terribili, dormo la notte e non rinuncio alla mia tranquilla vita di moderato comfort…
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È quello che fa la gran parte di noi, che non siamo insensibili, Marisa. E ci facciamo sommergere da sensi di colpa che non ci fanno essere soddisfatti di nulla. Penso che fare il poco, con fatica, partecipare, sia tener viva la speranza che le cose possano cambiare. Non come vorremmo, non con i nostri tempi, ma se si spegne ogni luce c’è solo il baratro per i deboli. Devo reprimere la rabbia quando cerco di ragionare, riconoscere le responsabilità, mai relativi zare. Ragionare, opporsi, non essere domi, come possiamo. Questo è ciò che penso per me possibile.
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Di fronte a tragedie enormi capita che prenda il panico da incapacità di reazione, o da inadeguatezza, ma pensandoci bene anche un piccolo gesto di opposizione può contribuire se coeso ai tanti complessivi. L’indifferenza sarebbe una resa.
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È così Daniela. Grazie 😊
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