
E’ una delle ultime feste delle matricole, il ’68 renderà improvvisamente anacronistica questa festa, che riprenderà alla fine degli anni ’70, quando tutto sarà normalizzato. La fotografia è del 1967, scattata su fp4 Ilford, sviluppata e stampata in casa. In quell’anno l’università elitaria diventa università di massa, ma soprattutto comincia a mettere in discussione i meccanismi di trasmissione del sapere e la loro incidenza sulla società. Si capisce che il sapere serve per mantenere potere, soggezione e diseguaglianze se non mette in discussione il suo fine. La conoscenza fino a quel momento, ha liberato poco le persone e la società, se non è stata accompagnata dalla critica e dalla richiesta di cambiamento. Cioè non basta leggere la società, bisogna trarne le conseguenze. E’ una consapevolezza che cresce e diventa collettiva, ma quello che viene poi, dal 1972 è una sequela infinita di errori, di radicalismi, di alienazioni differenti, e altrettanto gravi. La lotta armata, le uccisioni di magistrati e giornalisti, l’attacco al cuore dello stato, i servizi deviati, gli attentati neri, i golpe falliti. Il poligono dei fatti, la stanchezza, le intenzioni diverse si combinano. Ci sarà la restaurazione e il lento scivolamento nell’anomia, nell’esasperazione dell’io perché il noi è insoddisfacente. Il sapere torna nell’alveo della trasmissione delle competenze, non discute più rapporti e fini, si tecnologizza e parcellizza ulteriormente. Si capisce che il sapere di per sé non salva, al più pone domande radicali, anche se aiuta a trovare risposte nell’analisi della realtà e bisogna decidere se ascoltarlo o meno. Nel frattempo la macchina del sapere si organizza, crea competenze alte ed esclusive, ma in campi ristretti, dequalifica come inutili economicamente le conoscenze umanistiche, punta sulla parcellizzazione che allontana le risposte complessive e fa trionfare la tecnologia. Ogni problema singolo ha una risposta tecnologica, ogni malattia del corpo e dell’ambiente riceverà una guarigione. E poiché non può economicamente attendere la coscienza del problema che crea, spesso la tecnologia anticipa la domanda, la crea.
Il bivio tra un sapere che colloca l’individuo nella società e quindi la sottopone al suo vaglio e il sapere funzionale nasce ben prima del ’67, però in Italia diventa coscienza collettiva in quegli anni. I risultati di una meditazione caotica, non per questo priva di acutezza, di fortissimo discernimento, sfociano, anziché nella sabbia che è sotto l’asfalto, come si scriveva sui muri di Parigi, in un grigiore di cemento. Se prima del ’68 l’attacco al territorio e all’uomo, la speculazione, erano un fatto enorme e censurabile, questa pratica divoratrice diventa poi una corsa all’arricchimento di molti improvvisati prenditori. Cresce la scolarizzazione, il sapere eppure aumenta la malversazione, il malaffare grigio, la corruzione, la pratica criminale intelligente. Non c’è correlazione tra sapere e comportamento delinquenziale, ma certamente viene riscoperta da chi avrebbe nuove capacità di critica, l’infingardaggine, il girarsi altrove, il non vedere per interesse. Quindi il sapere abiura alla sua funzione critica e pur essendo di massa non migliora complessivamente la coscienza sociale. Dov’era l’errore? Forse nel dare al sapere una responsabilità che in realtà è dell’uomo, ma anche nella malintesa concezione che il sapere serva a fare e non ad essere.
Quel giorno, è l’otto febbraio, sono molto giovane e pieno di pensieri e speranze, giro per la città con la mia macchina fotografica. Cerco i volti e i particolari, come sempre, le situazioni accennate. Guardiamo questa situazione, dietro l’angolo del Pedrocchi si prepara una sorpresa, sono giovani che vogliono ridere con altri giovani. La giovinezza esplode nello scherzo e nell’ilarità conseguente. E’ un attimo poi qualcosa di diverso attirerà l’attenzione per ulteriore ilarità. In questa sospensione prima che qualcosa accada, è vissuta una generazione e la successiva. Non malamente, si è riso molto. I due della foto si stanno preparando alla vita, non so cosa sia accaduto loro, come le vite si siano svolte. Se penso a ciò che conosco, immagino che le difficoltà e i grovigli non siano mancati, che la crescita abbia avuto luci e amarezze, che l’indole si sia piegata, indurita, che abbiano appreso molto dalla realtà (che è sempre una dura maestra). Sono miei coetanei, e poi hanno avuto occasioni per usare il sapere che questa alma mater gli ha dato. Chissà, e come, le hanno usate le occasioni. Comunque i loro anni saranno stati pieni e di certo le soddisfazioni avranno equilibrato le amarezze. Sono anche certo che c’è stata molta speranza, ma che questa si sarà via via esaurita se non l’hanno alimentata di utopia e di sogni. Hanno vissuto, ma non sappiamo come abbiano impiegato ciò che gli è stato dato, se l’abbiano elaborato e siano diventati eretici rompendo paradigmi, oppure si siano smarriti in nuovi stereotipi del vecchio mondo. Stanno per avere una grande occasione e così li lasciamo, nel 1967, in attesa di una vita che ci sarà.
Ottima analisi che condivido in pieno in tutte le considerazioni da te fatte e le analisi su quegli anni, come convido (purtroppo) l’incertezza sul possibile smarrirsi dei due studenti fotografati.
Non condivido invece perché la vedo vana la speranza con cui concludi questa tua ottima analisi, “di una vita che ci sarà” Quale? Quella che stiamo vivendo? Ed era questa la vita che ci attendevamo negli anni 60?
Comunque, ti faccio i complimenti.
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Sto pensando spesso, Marcello, alla distopia in cui siamo finiti. Non voglio fare paralleli. ma abbiamo vissuto anni in cui le tenebre sul mondo erano forti. Penso alla situazione del dopoguerra, alla Corea, poi alla DC di Scelba e ai morti in piazza, penso alla crisi dei missili a Cuba e all’incubo nucleare. Potrei continuare ma credo che la differenza rispetto ad oggi fosse la presenza di almeno due ideologie nel mondo, oggi c’è solo il capitalismo che divora la democrazia. La vita che mi attendevo in quegli anni aveva in più una coscienza che era possibile cambiare il paradigma e che questo era possibile farlo assieme. I dittatori fanno danni enormi ma cadono quando emerge il noi nella società. Allora se ciò che c’è oggi non è quello per cui in molti abbiamo lottato, se questa società è molto meno reattiva di allora, so anche che sono i fatti a muovere gli uomini, che esiste un limite in cui si passa dall’egoismo alla necessità dell’essere in molti. E se ora questo è difficile da vedere, non posso pensare che l’anima dell’uomo sia talmente mutata da non lasciare spazio alla solidarietà. Passerà la tempesta e ciò che si è raggiunto non sarà buttato. Non come l’avremmo voluto, in altro modo, con altre parole guida ma tornerà di nuovo. Importante è che ci sia una reazione, che torni lo spirito critico unito alla necessità di cambiamento. Nel ’68 eravamo una minoranza, però la società ne fu contagiata, spero accada anche adesso.
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Il tuo sguardo sul sapere e sul suo ruolo nella società mi colpisce. Mi colpisce perché è una riflessione che sembra muoversi su due piani: da un lato, la grande promessa della conoscenza che si fa strumento di critica, di liberazione, di trasformazione; dall’altro, il suo tradimento, la sua normalizzazione dentro gli ingranaggi di una società che ha imparato a renderla innocua, funzionale, spezzettata in competenze e non più in visioni.
Ed è interessante la tensione tra questi due poli, perché in fondo è la storia stessa del sapere moderno: ogni volta che si è acceso di senso, ogni volta che ha provato a essere non solo strumento ma coscienza, è stato o addomesticato o rifiutato. Il ’68 ha provato a metterlo in discussione con la radicalità dell’utopia, ma da lì è nato anche il suo smarrimento. Hai ragione nel dire che dopo è venuta una sequenza infinita di errori, di frammentazioni, di cecità. La critica si è smarrita nella violenza o nell’autoreferenzialità, e il sapere, da promessa collettiva, è tornato a essere individuale, a servire più per “fare” che per “essere”.
Eppure, quello che dici mi porta anche a un’altra domanda: il sapere ha davvero mai avuto questo potere di trasformazione? O lo abbiamo investito di un compito che è sempre stato dell’uomo, della sua volontà, della sua etica? In fondo, non è il sapere a salvare o a corrompere, ma chi lo usa e con quale fine. La corruzione, la speculazione, il cinismo della modernità non sono nati con la scolarizzazione di massa, e neanche con la sua tecnicizzazione. Sono semmai il risultato di una società che ha deciso che la conoscenza serviva al progresso più che alla consapevolezza.
E allora, guardando quella foto del ’67, vedo quella sospensione che racconti, quel momento prima che qualcosa accada. È il tempo dell’attesa, della possibilità, del bivio che ancora non si è rivelato. Forse ogni generazione vive quel momento, prima che la realtà si imponga con la sua durezza. E forse il vero problema non è che il sapere si è parcellizzato o tecnologizzato, ma che abbiamo smesso di credere nella possibilità di usarlo per immaginare strade diverse. La speranza non è infinita, dici, se non viene nutrita di utopia. Ma forse la vera sfida non è riportare il sapere a un’idea perduta di coscienza collettiva, ma capire come usarlo per costruire nuovi modi di stare al mondo. E quello, alla fine, non è mai un compito del sapere in sé, ma di chi lo abita. Ti abbraccio.
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I chierici hanno sempre tradito. Non tutti, ci sono fulgide eccezioni che brillano per tutta la strada umana. È vero che la responsabilità dell’uso del sapere ricade sull’uomo è così la rottura dei paradigmi che imbozzolano il sapere. La libertà è una scelta e una consapevolezza. Guardo a ciò che accade in questo tempo e vedo da un lato il dileggio della conoscenza, dall’altro il suo uso strumentale, tutto finalizzato al potere assoluto. Da sola la conoscenza non basta serve l’etica per riportarla all’uomo e così essa può diventare eretica, additare nuove strade rispettando l’umanità. Speravo che questo ruolo di un sapere diventasse strumento per la crescita collettiva poi vedo la manipolazione a cui viene piegato e penso a un tradimento del possibile. L’umanità è andata avanti in questi 60 anni come mai prima, ora si arresta e asserve la critica al possesso, alle briciole. Cambierà certo, ma a quale prezzo.
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La tua riflessione mi arriva densa, come un tempo sedimentato dentro le parole. Dici che i chierici hanno sempre tradito, e in fondo è vero: perché il sapere, quando si fa istituzione, spesso finisce per proteggere sé stesso più che per aprire strade. Ma ci sono le eccezioni, ed è in quelle che forse dobbiamo cercare il senso della conoscenza che non si lascia addomesticare.
Mi colpisce molto il punto in cui dici che la conoscenza da sola non basta, che senza etica resta muta, o peggio, diventa strumento di potere. È così: il sapere, nella sua forma più pura, non ha direzione, è neutro, è possibilità aperta. È l’uomo a dargli una traiettoria, a decidere se usarlo per emancipare o per dominare, se farne un’eresia che illumina nuovi sentieri o una catena che tiene tutto fermo.
E allora, questo tradimento del possibile di cui parli, è davvero un destino o è solo una fase, una stagnazione? È vero che in questi anni l’umanità è corsa avanti come mai prima, eppure sembra che la velocità ci abbia fatto perdere la profondità. Il sapere è stato frantumato, incapsulato in specializzazioni che lo rendono potente ma miope, incapace di vedere l’insieme. Non c’è più la tensione a costruire un senso collettivo, tutto viene ricondotto alla logica dell’utile immediato, della tecnica che risolve problemi senza porsi troppe domande sul perché di quei problemi.
Eppure, cambierà, dici. Cambierà, ma a quale prezzo? Forse il prezzo sarà la disillusione di intere generazioni, forse dovremo toccare il fondo dell’anomia, del vuoto, della rassegnazione. O forse, tra queste macerie del sapere strumentalizzato, nascerà una nuova eresia, una nuova ribellione che ridia al sapere il suo ruolo di coscienza e non solo di strumento. L’eterno bivio dell’uomo. Non sarà il sapere a salvarci, ma la scelta di come vogliamo usarlo. Mio caro, il sapere, la coscienza, la libertà… sono battiti di una stessa inquietudine, di un desiderio di andare oltre, di dare significato.
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Hai colto bene Nadine, la mia speranza è in quella eresia umanista e che prenda menti e cuori
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Belle queste riflessioni sul sapere… siamo portati a pensare che la conoscenza ci renderà consapevoli e più liberi, io poi ho fatto l’insegnante per tutta la vita, e sono per di più una seguace di don Milani… e tuttavia è vero, che il sapere non basta…
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