








Quando qualcosa si incrina, o si ricuce oppure ci si dispone alla rottura.
All’inizio non lo si fa neppure consciamente, ma ciò che prima era semplice e accettabile, muta e prevale il sentirsi non capiti, spesso offesi. Questo genera omissioni, silenzi, rimbrotti e ogni cosa cambia di significato. Insomma ci si orienta verso un fine di separazione. E c’è un limite oltre il quale tutto precipita, diventa inevitabile. Non lo è per necessita, ma ricucire costa fatica perché provare sentimenti non è gratis, capire l’altro è un impegno.
Il conto sull’efficienza di una relazione, una sorta di economia dei sentimenti, prevale se ci si chiude, se non si costruisce/avverte il nuovo, dicendolo esplicitamente (non ho più nulla da dire è la rinuncia a dire il nuovo), e al contrario, mettendosi in attesa di qualcosa che non verrà. Credo sia questo uscire da una fatica che si ritiene solo propria che accelera la distanza, l’inevitabilità. E il lasciarsi andare all’inevitabile, è un togliersi la colpa di ciò che si doveva decidere. Forse per questo c’è un culto del destino per il quale le cose succedono senza nostra responsabilità. Non è così, ma siccome un po’ infingardi lo si è di default allora è meglio crederlo.
Si dovrebbe dire la stanchezza e la propria difficoltà e sperare che venga capita, perché solo l’accettazione della difficoltà, può cambiare entrambi e le cose. Se così non è, non era una incrinatura ma una rottura antica consumata da chissà quanto tempo e poi coperta d’ abitudine. L’abitudine non è un kintsugi d’oro che ripara ma un sipario che nasconde.
Da molto l’io aveva soverchiato il noi, ma si faceva fatica ad ammetterlo, perché non essere in grado di tenere in piedi un progetto è un fallimento. Però ci si dimentica che solo i progetti, l’entusiasmo e il costruire falliscono, ed essi possono conservare il buono del molto che si è fatto. E così può riprendere il senso del futuro con una conoscenza acquisita mentre l’arroganza, la prevaricazione, il dominio non falliscono, ma non costruiscono nulla.
Non c’è felicità senza pace, la mediazione è una via di felicità.
Già nello scrivere mi commuovo, perché conosco sento- penso alla delicatezza e alla fragilità dei fatti umani che si incontrano nelle relazioni personali, di coppia, familiari, lavorative, sociali .
“L’arte” del mondo orientale è volta all’uomo e a tutti gli esseri viventi , alla Terra in questo l’umano si ridimensiona cerca e trova l’ equilibrio , mi affascina e mi rasserena.
Attraversare un momento difficile, e soprattutto mostrarne le cicatrici dopo, ci provoca vergogna.nella mentalità consumistica nella quale siamo immersi
Qualsiasi crepa nel percorso verso il traguardo è vista come un fallimento, una debolezza, un ritardo.
C’è un orologio sociale che tenta di prevaricare costantemente il nostro orologio personale, tentando di annientare ’autenticità.
Resisto e continuo per il mio cammino , le considerazioni vicine e lontane scivolano via ,rientrare in sé e con la pace dentro cercare di mantenere la pace .
Grazie Roberto, questo tuo articolo mi ha chiesto tempo, quello della calma. Le decisioni importanti chiedono il tempo che è e che ha memoria .
.Per motivi contingenti , in questo sono impegnata e va bene così il tempo ora è qui . A presto 🌱☺️🥀🥀🥀
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Grazie Francesca per questa riflessione, porta verso la calma e la sua azione bella anche quando c’è movimento. Un costruire e un riflettere sul vivere. 🤗
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Il tuo pensiero è lucido, disincantato e allo stesso tempo profondamente umano. Mi colpisce la tua capacità di cogliere la dinamica silenziosa della separazione, quel processo quasi impercettibile in cui qualcosa smette di funzionare non per un evento improvviso, ma per l’accumularsi di non detti, di percezioni mutate, di fatiche taciute. La tua riflessione porta con sé un grande senso di responsabilità: non c’è un destino che decide per noi, siamo noi a decidere, anche quando ci illudiamo di non farlo.
Mi soffermo in particolare su ciò che dici sulla fatica: amare, comprendersi, restare, è un impegno. E spesso è proprio la difficoltà a esprimere questa fatica – e il timore di non essere compresi – a rendere irreparabili certe incrinature. Forse perché ammettere la stanchezza sembra un segno di debolezza, mentre in realtà è l’unico atto di verità che potrebbe cambiare il corso delle cose.
L’immagine dell’abitudine come un sipario che nasconde piuttosto che un kintsugi che ripara è potente: spesso si crede che resistere sia un valore in sé, ma a che prezzo? A volte l’abitudine non è una scelta di maturità, ma solo una rassegnazione travestita. E qui tocchi un punto essenziale: il vero fallimento non è lasciar andare un progetto che non regge più, ma ignorare la possibilità di costruire qualcosa di nuovo, fosse anche dentro di sé. Il dominio, l’arroganza, come dici tu, non falliscono perché non creano nulla, ma il costruire implica il rischio del crollo. Eppure, è l’unico modo per avere un futuro.
Leggendoti, mi viene da pensare che forse il vero atto di coraggio non è solo ricucire, ma anche avere l’onestà di riconoscere quando qualcosa non è più recuperabile. Non per deresponsabilizzarsi, ma per scegliere, questa volta davvero.
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Comprendersi è un impegno e una fatica. Reciproca, perché la sensazione di non essere compresi erode un rapporto, rende grandi le fratture che potevano essere superate. E parlare, dire la propria difficoltà diventa impossibile se si pensa che essa non verrà compresa. Quando è ancora possibile e si avverte il disagio, lo sforzo è duplice:quello di una verità interiore che riconosca se il rapporto è recuperabile accompagnata dalla verità esteriore del raccontarsi. Hai ragione, se non si può recuperare una relazione bisogna avere l’onestà del riconoscerlo. Grazie per la tua analisi che condivido molto e mi fa riflettere.
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Riflettendo con la mente meno stanca (forse rischiando di contraddirmi) aggiungo che paradossalmente, è proprio quando ci si sente meno ascoltati che bisognerebbe parlare di più. È l’unica via per non perdersi del tutto, anche quando il recupero non è possibile perché forse la vera onestà sta nel non rimanere fermi: nel parlare finché ha senso, nel riconoscere quando smettere non è fuga, ma rispetto per ciò che si è stati. – Il dialogo è un rischio così difficile da correre? Pensa anche a questa eventualità ma solo tu conosci la tua storia e gli altri, con i loro consigli, non faranno che basarsi sulla loro.
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Aggiungi argomenti importanti alla riflessione Nadine. Ci penso e cerco di capire meglio, anche se condivido la tua considerazione. Grazie 🤗
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