C’è un tempo in cui le promesse, le fanfaluche, le stesse parole vengono a noia, nel senso che non fanno più nessun effetto. Pensate se fosse festa tutto l’anno, dopo una settimana non si saprebbe più che fare, così emerge un bisogno di normalità che investe presente e futuro. Forse è la stanchezza di una realtà che è mistificazione e porta tutto sul presente e nel personale. Forse abbiamo cancellato troppo facilmente la sindemia da covid in un’ansia di scordare che ha abrogato i problemi che erano emersi con le paure del contagio e le convulse e parziali risposte che l’hanno accompagnato. Forse è la guerra in Ucraina e l’immane eccidio di Gaza che sembrano non riguardare e si riducono a un continuo rifornire e usare armi senza pensare che ci sono centinaia di migliaia di morti e nessuna trattativa per la pace. Forse sono i riti della politica che si ripetono, l’ eterno barcamenarsi del PD, le trasformazioni del M5S, il tramonto di Salvini che oltre a lagnarsi non dimostra alcun talento, la Meloni che diventa un gigante della destra che ama la famiglia, la sua, la fine patetica del berlusconismo, ecc ecc. Tutto annegato tra panettoni e povertà estreme. Ci si abitua a tutto e non è bene, perché il peggio dilaga. Ma anche questo è un lamento e non produce nulla, non cambia la realtà, che dipende troppo spesso da una lettera di assunzione o di licenziamento, che non muta la perenne perdita di speranza sull’Italia che riguarda i giovani e quelli che a 50 anni devono inventarsi un lavoro. C’è una progressiva disperazione che accompagna la povertà crescente, è un regalo della meritocrazia e del familismo che ha potere e denaro e quando non lo ha, prende a calci chi sta peggio. Ma chi si merita davvero di essere povero, di avere fame, di non avere cura né solidarietà? Invece pian piano si fa strada l’idea che chi non arriva ad avere successo ne porti anche la colpa e che il nemico sia chi ha ancora meno e accetta di tutto per non morire di fame. Di dignità si parla sempre meno, il lavoro come mezzo per avere realizzazione e vita dignitosa non esiste quasi più, ma si frammenta in piccole schegge di appartenenza sociale e poi di rifiuto reiterato della realtà. Nella meritocrazia c’è la competizione non la dignità che rende uguali in partenza e durante la corsa. Ci si accontenta duellando col vuoto di senso, di futuro, di presente, di patria. Casa or è dove si vive e fare lo sguattero a Londra o raccogliere mele in Australia dà una dimensione terribile dell’abbandono, della perdita di credibilità di un Paese verso i suoi giovani. Nessuno provvede davvero e non resta che competere. I poveri, i deboli, gli esclusi saranno oggetto di carità, se va bene, e la dignità si perde così, pian piano, nella consapevolezza che non siamo comunità ma individui. Terribile vero? Eppure è così e le distanze tra la speranza e la realtà si allungano, a questo dovrebbe pensare la politica, la sinistra in primis, ma anche chiunque pensi davvero che gli uomini valgano qualcosa. E non basta lo dica il Papa, dobbiamo dirlo noi che lo pensiamo. Anche nelle piazze che si affollano di senza partito e che esprimono questo bisogno di pulizia interiore, di solidarietà, non si percepisce che è festa tutto l’anno quando c’è un noi che difende l’io, quando ci si riconosce e si è contenti di farlo.
Verranno uomini di buona volontà, sono sempre arrivati, per far rinascere nella giustizia sociale di cui tutti abbiamo bisogno. Speriamo arrivino in tempo perché mai come ora le minacce alla vita e alla libertà sono alte, perché la guerra si afferma come ipotesi concreta e folle, perché l’ambiente non attende per gustarsi alla vita. Speriamo e facciamo ciò che è possibile, la somma dei molti possibili delle buone volontà genera l’attuazione del sogno.
Condivido con estrema empatia, Roberto
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