Scrivono e dimenticano, così riscrivono con le stesse parole altri fatti e situazioni. Giornalisti di una realtà virtuale, compilano dizionari propri, mettono parole che sfuggono appena si sono lette, Più di rado le permutazioni di significato aprono una finestra e fanno entrare una luce che resta e diventa cosa, non parvenza, ma sostanza.
Sarebbe bello andare così, allegramente al cuore delle cose ed esserne amati, pensando che questo sia capacità di tutti, ossia questione di esercizio, di pazienza verso lo sguardo, di soste in panchine scomode o in piazzole di sosta dove la luce della freccia destra aiuta ad annotare frasi su improbabili quadernini. Appunti per un poi che rimetta assieme per magia le sensazioni e i nomi e che lì ritrovino il giusto ordine e siano pensieri.
Per digerire le cose e dare loro il nome del cuore bisogna lasciarle frollare, lasciare che la lingua percoli nel profondo.
L’incanto degli immaginifici si dissolve a fine discorso. Resta un calore, un entusiasmo, ma è impossibile fare un riassunto e le parole giacciono ammucchiate ai nostri piedi. Chi è particolarmente entusiasta direbbe che si sono conficcate nei cuori, ma questo vale per poche idee, in realtà ciò che resta sono le parole che muovono, che aprono, che dividono le acque come fossero il mar Rosso. È ciò che alza lo sguardo e al tempo stesso lo porta all’interno, nel cuore profondo della specie, dove abita la meraviglia e il sauro, e confronta il risultato di ciò che vede e sente, facendo percepire la grandezza e la povertà. Riflettiamo perché sono entrambe spinte importanti per trovare una ragione al fare, sono una sezione all’infinito che ci riguarda e che a volte, unico antidoto alla vanagloria, ci lasciano essere moderatamente soddisfatti di noi.
Dare un nome profondo alle cose è fidarsi che qualcuno sentirà come noi, che ci sarà un momento in cui parlando, la stessa realtà coinciderà. Non basta un discreto corredo di lemmi che la memoria trattiene o altri di cui tiene traccia: guardare attorno non significa sempre saperlo descrivere. Qui nascono le perifrasi, si tingono d’oscuro le parole e ciò che sembrerebbe lampante non ha una comprensione che rassicura, insomma ciò che ha un nome protesta se non viene riconosciuto e allora diviene instabile e non dipinge a sufficienza l’evolvere di ciò che accade. Si usano aggettivi che si spengono nel loro meravigliarsi di esistere, come usa la fiamma di un cerino che si esaurisce nel suo essere per poco e definitivamente. Insomma si gira attorno perché non si sa che dire davvero e servirebbe tempo. C’è una spinta che ancora non ha nome e si ha timore del silenzio. Così l’aria si riempie di parole che non saranno mai vicinanza e forza comune, non si riconosceranno. Resteranno in superficie come fanno le recensioni dei libri che descrivono una trama e tralasciano quella frase potente che illumina un destino. Sembra sia importante dire come inizia e come finisce ma quello che si sente davvero, ed è illuminazione, resta sepolto nella comunicazione. E così ci si sente soli, prigionieri di una meraviglia che spiegherebbe molto di noi ma non ha udito che l’ascolti.