la magia del Natale

Per la vigilia di Natale, dovunque fossi, comunque tornavo. Spesso stanco, con gli occhi e la testa ancora pieni di altri luoghi, aerei che tardavano, problemi irrisolti, ma tornavo. Anche mio Padre lo aveva sempre fatto, tornava dai suoi lavori troppo distanti da casa e l’antivigilia, la sera, sentivo il suo passo salire le scale, la delicatezza con cui apriva la porta, il poggiare il cappotto e la valigia, il sorriso mentre salutava. Poteva essere tardi, ma arrivava. Era una certezza che faceva bene e accentuava la magia di quei giorni in cui eravamo tutti assieme.

Nelle mie programmazioni di lavoro non accadeva spesso che viaggi lunghi o incontri, fossero ancora urgenti a dicembre, ma succedeva. Cercavo di fare le cose in fretta, di chiudere attività non necessarie, però non sempre era possibile. Di fatto i giorni in cui si fermava tutto erano quelli che seguivano il Natale fino ai primi dell’anno, forse per questo alcune urgenze presunte o incontri indifferibili, venivano sollecitati prima. MI sembravano forzature e le subivo con un fastidio che mobilitava la pazienza, ma sul rientro alla vigilia ero inflessibile. MI sono accorto molti anni dopo, quando mio Padre non c’era più che quel tornare aveva un senso profondo e ho pensato che forse era un sentire comune che condividevamo pur tanti anni dopo. Credo fossimo attratti da qualcosa che non era sempre ripetibile: la nostra famiglia unita e strana si trovava ancora più presente a Natale. Non è mai mancato nulla: ci sono stati tutti i riti che hanno reso particolari quei giorni che diventavano il giorno della festa. Prima fra tutte la vicinanza e l’amore, poi i gesti, le letterine sotto il piatto e la poesia recitata, le stoviglie della festa, la tovaglia di lino bianchissima, il calore che faceva gocciolare i vetri, l’albero luccicante nell’angolo con i doni ben avvolti in quelle carte colorate con grandi fiocchi, che già erano regalo.

Mio Padre tornava da luoghi di fatica dove il Natale era una festa che si consumava in fretta, magari a turni di presenza. Tornava da locande in cui dormiva e consumava pasti anonimi, piccoli paesi in posti isolati dove al più Natale era un giorno che assomigliava a una domenica fuori calendario e i proprietari sbuffavano perché perdevano qualche giorno di pensione da parte degli ospiti. Per me, molto dopo, erano altri anni e tornavo da luoghi che riempivano di luci il centro della città in cui ero, che assiepavano bancarelle di dolci nei mercatini. In quel passar d’anni il giorno era già mutato, diventato opulento, con nuovi riti ed era uguale e diverso dovunque fossi. Uguale nelle luci, nelle strade, nel calore che veniva dalle porte sempre aperte dei negozi, dall’atrio dell’albergo con il grande albero e negli auguri dei portieri e degli inservienti. Era uguale nelle strade attorno, nei regali portati con passo sorridente da uomini e donne incappottate, già vestiti quasi da festa. C’erano pochi anziani, molti poveri per strada. Era come da noi, e chi acquistava sembrava felice di poter fare festa. Se guardavo attentamente le persone m’accorgevo che chi comprava apparteneva a quella fascia d’età in cui ancora tutto accade. Insomma sembrava che la festa fosse uguale a quella che viveva la mia città, anche se c’erano abitudini diverse a fare la differenza: le musiche per strada, gli stessi abiti e soprattutto le tradizioni di cui toccavo la novità. E c’era un cibo particolare per l’antivigilia, oppure i dolci che avrei portato a casa, riti che non coincidevano, come le lingue parlate, però tutto sembrava convergere in una necessità di stare assieme tra persone che si volevano bene o almeno si conoscevano profondamente. Anche le case sembravano differenti da quelle delle mie strade, più piccole, con balconi e stili diversi ma era la stessa luce che illuminava famiglie raccolte per la cena e così le chiese che già avevano il presepe e gli addobbi che sarebbero serviti per la messa di mezzanotte. Tutto metteva l’urgenza di tornare.

Mio Padre arrivava almeno due giorni prima, c’era una cura che le donne di casa riservavano alla sua fatica e che esigeva tempo, per ritrovare la diversità di una vita più calma, senza pesi e impegni a cui pensare. Il vestito grigio, dalla stoffa morbida e calda, ben stirato, la camicia di seta per la mattina della vigilia, la cravatta e la sciarpa color cammello da lasciare slacciata sul cappotto, come a prevedere un improvviso accesso di freddo. Il tutto nella luce di mezza mattina. Era importante quella luce per incontrare gli amici di una vita, nel centro della nostra piccola città, perché era un ritrovare persone e luoghi con la tranquillità di non avere fretta. Anche questo ho capito dopo: la luce, l’amicizia che dura, i saluti che mi sembravano sempre così calorosi tra uomini, il fatto che mi coccolassero e chiedessero di mio fratello se non c’era. E poi il parlare e il sorridere spesso, mettendo nei discorsi altri amici, altre storie che non conoscevo. A questo serviva il giorno della vigilia, a rimettere a posto le cose che contavano, apparecchiare la festa. Il pranzo della vigilia era già particolare, i bigoi in salsa e il bisato, Spaghetti riservati a quelle occasioni, che avrei rivisto al venerdì di Pasqua, strani nel colore bruno, nella ruvidezza e dimensione, conditi con quel sugo fatto di sarde sotto sale sciolte con la cipolla tagliata sottilissima. L’anguilla poteva essere cotta in vari modi ma non mancava mai di affogare nella polenta bianca.

Tutto si svolgeva come un rito, anche il pomeriggio che scorreva tranquillo. La stufa economica in cucina aveva i cerchi rossi di calore e i bolliti riempivano di vapore la stanza con un affaccendarsi quieto delle due donne di casa, che parlottavano tra loro di segreti che evidentemente ci erano preclusi. Poi ci sarebbe stata la messa a mezzanotte, i canti natalizi nella chiesa e un tornare assonnato verso casa nel freddo che pungeva sotto i cappotti. Quand’ero piccolo, qualcuno mi portava in braccio perché m’addormentavo prima dell’uscita dalla chiesa e mi trovavo la mattina dopo nel letto con le lenzuola che profumavano di sapone e la cioccolata fumante d’aroma con i biscotti che veniva portata, solo per quel giorno, a letto. Era anche questo un rito di casa che riguardava mio padre e noi ragazzi, come a sottolineare sia la cura che l’eccezionalità del giorno. Poi ci sarebbero stati i regali, il pranzo particolare e interminabile per la poesia recitata, le promesse da fare, l’attesa del dolce, e quel conversare che non aveva né fretta né tempo e sfociava nel pomeriggio inoltrato. Sarebbe venuta la sera e la certezza che il giorno dopo sarebbe stata ancora festa, ma minore e senza lo splendore dell’attesa. Però avevo un giocattolo nuovo e questo avrebbe accompagnato fantasie da inventare sul momento, in un angolo di casa tutto mio dove solo il gioco avrebbe posseduto il tempo.

Tornavo a casa in tempo per fare l’albero, con i doni già acquistati nei giorni precedenti, ma il dono più grande era essere a casa. Avevo il viaggio per prepararmi, per lasciar cadere le stanchezze, per ritrovare il rapporto con le persone che erano la presenza forte nella vita. Avrei ritrovato chi non era un biglietto d’auguri, sentito la casa, riconosciuta la città. Sentivo che Natale era un giorno speciale, che anche per chi si voleva bene era un giorno che aveva un’unicità particolare, perché ci sono cose che sono più uniche di altre e le chiamiamo magiche. E i bambini questa magia la sentono perché la lasciano affiorare, la vivono ed è attesa, felicità che deve arrivare, disposizione dell’animo verso un giorno che si carica di significati. Non importa quali perché la magia è la capacità di stupire se stessi prima che gli altri, accettare come naturale il nuovo e vederne la meraviglia. E tutto questo condividerlo senza limiti in una dimensione che mette accanto le persone importanti, care, quelle che capiscono oltre le parole, i gesti, gli stessi silenzi e accolgono. La magia che abbiamo dentro può essere il ricordo di qualcosa che si è perduto oppure la certezza che essa si nasconda da qualche parte in noi e che solo con l’innocenza possa emergere. L’innocenza del fidarsi dell’amore e dell’essere amati. Questa è la magia che abbiamo e che ha in sé una nascita che si ripete perché l’amore si ripete ed è diverso, nuovo e meraviglioso. Il fatto che accada a Natale o in qualsiasi giorno dell’anno dipende da noi.

Dipendeva da me che tornavo e che ora capivo mio Padre, capivo il suo quieto lasciarsi andare alle persone che voleva ritrovare, il tornare a casa per essere quello che era senza un ruolo. Essere se stesso con la vita che aveva costruito, solo felice di essere con noi.

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