Stavo a mezzo tra smartphone e soffitto, aspettando che finisse la magnetoterapia. Farsi una incrinatura al piede di questi tempi non è una grande idea, farla in casa dando una pedata a un gradino ancora meno. E non passa, passano i giorni e lei resta lì a impedire di camminare oltre il necessario. Basta attendere e quello facevo cercando di resistere al sonno. C’è stato un tempo, pensavo, in cui le cose in cui si credeva erano così importanti da soverchiare le analisi, persino la realtà. Soverchiare è una bella parola, che muta in sovescio nella pratica agricola dei terreni poveri e la si fa facendo interrare le piante e il materiale organico nel terreno così da arricchirne la parte organica. Soverchio è il troppo, quello che prende il sopravvento, nel far nascere il nuovo diventa il necessario. Così accadeva a noi che eravamo presi dall’ideale e lo facevamo prevalere. E questo fruttificava, generava coesione, faceva fare fatiche altrimenti evitate, ci appiccicava finché diventavamo noi ed eravamo una forza che credeva e praticava una strategia per raggiungere un fine.
Così pensavo mentre affluivano altri pensieri su un adesso che è fatto di legami labili, di ideali abbattuti e di progetti che magari sono condivisi all’inizio e generano un entusiasmo come si fosse tornati a quel noi che fa sentire più forti e distingue, ma poi ci si accorge che nel carretto non tutti spingono. Anzi è diventato un carro di Tespi e c’è la rappresentazione che va su un canovaccio, dove il puparo fa tutte le voci e i pupi si adattano dapprima e poi anziché ribellarsi se ne vanno. In fondo è la rappresentazione del potere che va in scena e chi di lo prende, lo esercita. Racconta che è quanto può fare, ma gli altri intanto, quelli che avevano messo assieme, il progetto, il programma, diventano sempre più sbiaditi. Il progetto viene corretto con il pennarello sottile dapprima e con quello grosso, che cancella e poi,non nasce. Non c’è nessun sovescio e ciò che cresce è stentato mentre grande è la delusione. Ma è questa, pensavo, la dimensione delle cose oppure è l’eterno scarto tra desiderio e soddisfazione quando il primo è in realtà grande, comprensivo di molto e di molti e la sua realtà molto più piccola? Sulla dimensione delle cose ci sarebbe molto da dire e da ridere. Intanto che da essa nasce una spinta forte quando ciò che si fa, si pensa vero è forte e migliore per molti, se non tutti. Poi questa dimensione si frange in tanti piccoli atti, gesti, pensieri, dubbi che mediano con la realtà in corso che non si vuol cambiare, perché è comoda. Così la dimensione rimpicciolisce per chi ha il potere e invece resta grande per chi ha lottato, contribuito a metterlo nelle mani di chi ora lo esercita. E per chi ha creduto, le cose sono ancora importanti, sono costate fatica, hanno generato speranze e sorrisi. Insomma si è sentito diverso nel fare quello che era necessario per cominciare a cambiare. E insieme ad altri, pure importanti e sorridenti, ci si è ritrovati, sentiti vicini. Si sono date pacche sulle spalle, si è parlato di realtà e di sogni, il cambiamento è sembrato a un passo, e bastava tendere la mano e un nuovo cantiere si sarebbe aperto.
La dimensione delle cose cambia quando ci si accorge che si è stati usati, oppure che si è inseguito qualcosa che sembrava una realtà, e lo era, ma poi è stata ridimensionata perché non siamo tutti uguali, non aspiriamo alle stesse cose. E anche i grandi ideali, i fondamenti che devono essere in continuazione ripetuti per essere almeno un poco mantenuti, non sono uguali per tutti. La giustizia è un po’ diversa, e così, l’equità, il giusto e l’ingiusto spostano il confine a seconda di chi li guarda. E il benessere, lo star bene, diventa un fatto personale, non collettivo. A volte qualche limite viene superato, l’etica mantenuta e la morale più codina ridotta a tacere, ma è uno sprazzo di felicità. Un conformarsi progressivo a qualche altro interesse. Muta la dimensione delle cose e il nostro sguardo diventa prima torvo e poi divertito. La consapevolezza di essere stato preso in giro fa rimettere ordine sugli scaffali, davanti ciò che è importante e dietro, ben dietro quello che lo è meno. Non si diventa cinici, ma subentra il disincanto perché qualcuno davvero ci aveva incantato e mostrato una realtà che non era vera. Ci si dice, facciamo il possibile, seguiamo la coscienza, ridiventiamo cani sciolti e un sorriso appare perché era bello essere assieme e di sicuro torneremo ad esserlo. Per la realtà delle cose, perché ciò che è troppo è troppo e anche nel carro di Tespi i guitti annoiano, così nella commedia prima si era seri, poi si è riso e infine sono subentrati i fischi. Dovrebbero sempre vincere i paladini e invece dapprima perdono ma poi tornano più forti di prima perché ci dev’essere un lieto fine e questo lo vuole il pubblico.
Così pensavo e poi un po’ più leggero perché le cose si rimettono in ordine non prendendosi sul serio, sono andato a fare il pane.
(301) ALFREDO KRAUS, Canción de la Espada, El Huesped del Sevillano. – YouTube