Nel pomeriggio del dì di festa, bambini che giocano, gli adulti parlano. Credo discorsi leggeri, interrotti da risa gli aneddoti. Il cielo oggi si è mosso molto. Dal lago sono giunte nubi paffute, con pance nere di pioggia dissolta poi nell’aria. C’era l’allegra confusione in me di chi sente e non sa: difficile trovare i nomi al verde che cresce, alle strida d’uccelli, al cantare dei canarini in gabbia. Difficile trovare lo sciogliere del tempo nell’inutile, sapendo che a quest’ultimo si trova sempre una ragione.
Tutto scivola e s’allontana, tutto è fuori posto, fuorché quel cristallo d’anima che ancora riflette. Sul cielo, su ciò che vede, sul necessario e su sé. Come fosse uno specchio che non s’alimenta d’abitudine, o una richiesta malposta e per questo inevasa, oppure un inatteso benessere. Qual è il senso se ci si vuole perdere? Sciogliere nel piacere d’un sentirsi vivi. Abbandonate le strade poco confacenti, smarrito l’obbligo nell’innocenza, trovata una misura che includa ed escluda, cosa serve mentre s’approssima la sera e poi la notte? Forse è il senso d’un sogno che prevale piu che quello d’una vita. Capire che essa, a volte, è un perdersi che include il trovarsi o l’abbandono. Che, a volte è una crepa, dapprima impercettibile che fa risuonare diverse e atone le parole e infine le rende mute o eccessive. Che, a volte, è tutto questo, e anche un bagliore di quel verde a cui non mi è possibile dar nome. Eppure è lì, davanti, inerme e prepotente come una promessa.