inizio un po’ fangoso

C’erano dei luoghi, a est, che erano incongrui alla mia immaginazione. Non sapevo quello che avrebbe dovuto esserci, ma ciò che c’era era diverso da quello che mi aspettavo. Ero in un paese doppiamente straniero, straniero a me stesso e pure a chi ci abitava. Così ho conosciuto il realismo socialista e anche l’architettura imperial austriaca, tutto mescolato alle cupole dai colori accesi, le chiese piene di marmi dei gesuiti, i mattoni dei francescani, i finestroni alti e i fregi sui portoni. Gli uni avevano copiato dagli altri, in pretenziosità, come si dovesse sempre dimostrare qualcosa. E’ tipico degli invasori non essere sicuri, lasciare tracce, prima sui corpi e poi nei luoghi, mettere lapidi, imporre lingue, regole che devono trovare una espressione che resti. Per questo scelgono la pietra.

Appena fuori c’erano le casupole basse allineate lungo le strade fuori dagli itinerari europei.

Erano, quelle lunghe file di case color fango, con i giardinetti minuscoli davanti, con i cancelletti di legno, con gli stivali di plastica appena fuori della porta, affacciate su marciapiedi di terra e strade affollate di camion e biciclette, quelli erano i luoghi veri dell’abitare. Erano le dalie e i cavoli, i tumoli di terra nera cosparsi di torsoli, le vecchie latte di conserva pieni di terra e fiori, quelle erano le case di chi c’era e non era stato conquistato da qualcosa. E quando un viso di vecchio mi guardava da una doppia finestra, da quei vetri piccoli, incorniciati tra profili bianchi e quadrati, pensavo che di lì a poco sarebbe comparso il viso di un bimbo. Con le guance rosse, i capelli biondi e lo sguardo serio dietro gli occhi azzurri. E puntualmente accadeva. Allora ero soddisfatto e mi sembrava d’aver capito, d’essere meno straniero.

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