luoghi dove tornare 1

Dietro il “colme” ( che bello il dialetto quando definisce un confine dell’uomo con il cielo) del tetto, spunta il campanile di sant’Andrea. E’ una chiesa stretta tra case, palazzi, viuzze medievali, vicina al palazzo di Ezzelino il Balbo, ad un passo dalla casa di Pietro d’Abano e dalla sequenza civile e gloriosa dell’Università, del Pedrocchi, delle Piazze, del palazzo della Ragione, delle logge del potere veneziano, della reggia Carrarese. Insomma una porta sommessa verso il potere civile, frequentata, da sempre, dalle preghiere delle donne che fanno il mercato, dai pochi abitanti religiosi del centro. Un pezzo d’altro tempo. E qui emerge il campanile, bello ed incongruo tra le case che si sono aggiunte sino a non far capire, dov’esso realmente sia. Non è l’unico caso in questa città, ma penso ve ne siano in qualsiasi città, quando l’aggressione del nuovo si ferma indecisa di fronte a qualche simbolo e rimanda la decisione di distruggerlo sino a dimenticarsene, salvo assisterne, poi stupito, l’esistenza e non sapendo a cosa ricondurla, a quale passato, a cosa s’è perduto senza conservare memoria, prova un piccolo senso di vuoto che scaccia con un moto del capo, come il preannuncio d’un pensiero molesto. 

Vedo il campanile da una sala bellissima del piano nobile del Pedrocchi, mi distoglie dal convegno sull’ennesimo futuro della città. Evoca, il campanile, un futuro che oscilla tra la disattenzione e la passione acuta che evolve, non solo i luoghi, ma la comunità che li occupa, il senso comune dello stare assieme nella città. Qui ho un lampo d’una diversa dimensione dell’essere: questo è un luogo dove tornare, ma dov’è il luogo dove stare? In fondo per chi ha buona memoria il presente è un continuo impastare di vissuto e da vivere (immagino le mani che affondano in una massa morbida e plastica che segue le intenzioni per dar loro scopo e forma), ed i luoghi sono il filo del discorso. Quello nostro, non d’altri.  

Qui ero da bambino, passaggio notturno delle passeggiate con mia nonna verso qualche televisione ed un bicchiere di spuma, ma anche punto d’ arrivo delle corse urlate nella viuzza con gli altri ragazzini.

E’ da sempre considerato il punto più alto della terra della città, cresciuta sulle macerie del suo passato. Fino a sette strati ne hanno trovati, ma ci pensi a quante vite e pensieri e desideri si sono stratificati e chissà come si pensava e si sentiva in paleoveneto, oppure in etrusco, od anche nel latino corroso di frontiera. Frontiera e incrocio, prima e dopo Roma, qui si capivano, perché questa era terra grassa da conquista, e dopo un qualsiasi confine, i denti barbari, etruschi o latini, trovavano carne e roba in cui affondare e si fermavano. Il punto più alto è la gatta mutila della colonna (è un leone di san Marco malridotto, ma i padovani non amavano molto i veneziani dopo la conquista), animale di casa, la gatta, sberleffo e simbolo, insomma un luogo. Da ragazzo questi riferimenti sono stati la spirale delle scorribande notturne, ma non ne ho nostalgia, ne ho ricordo, che è molto di più.

Il convegno procede, ascolto e penso che l’architetto per la cuspide del campanile, prese una coppa di vetro (Murano di certo, la stessa forma la vediamo ancor oggi), e la rovesciò coprendola di rame, prima di poggiarla sulla greca fatta di mattoni della tonda cella campanaria. Otto archi di trasparenza per il suono ovunque senza risonanze e poi la discesa verso terra, ma già nulla più si vede. Si può intuire. E quella cuspide di campanile è il simbolo del vecchio e del nuovo che si intersecano nella città. La città che fagocita, digerisce, si trasforma come accade a qualsiasi organismo vivente.

Questo è ciò di cui si dovrebbe parlare in questo convegno, di come il nuovo può convivere e inglobare il passato, mentre invece si parla di idea guida, di attrattività, di eccellenza, intendendo idee economicamente vincenti, com’è s’usa quando sviluppo non è ragione e lo stare, è moda, più che stratificazione di interessi vitali. Invece sono ormai distratto dalla poesia del campanile prigioniero, eppure presente e vivo, da questo mescolarsi che è stato e che pure riabilita gli errori, li impasta con la speranza incoercibile del presente, nel senso della vita che continua. Ci si ferma nel vivere, e questo vale per gli uomini e per le cose che questi fanno, quando quell’incoercibile si piega su sé, e dilapida energia nel chiudersi, nel non andare, nel mirare la propria perfetta miseria. 

Non intervengo più, col poco o molto da dire, farei confusione con i luoghi, parlerei del dove tornare e qui si tratta del restare. Cose diverse. 

4 pensieri su “luoghi dove tornare 1

  1. Con tutto rispetto di chi ha organizzato e partecipato al convegno a cui ti riferisci, preferisco la tua digressione in favore dell’architettura che fa capolino da questa elegante finestra che le innumerevoli parole e gli altrettanti pensieri dei relatori (quanto poi si traducono in fatti, in realtà? Quanto poi rimangono dentro?)
    Se essi fossero stati così pregnanti non ti saresti annoiato e non avresti cercato altro in cui … evadere. 🙂

    Da me si dice “colmo”, però.
    E a proposito di dialetti, trovo simpatico notare le differenze più o meno grandi tra di essi.
    Eppoi ritengo che il dialetto riesca molto di più e molto meglio a descrivere le cose e la vita del più asettico italiano.

    Buona domenica Will!

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