la notte di san Lorenzo

L’acquazzone di stanotte ha regolato il caldo. Non dentro le case, prigioniere di muri arroventati, ma fuori, tra marciapiedi e portici, nel verde giallo dei prati di città, nelle strade dove l’ombra è più fresca tra aliti di vento. Il cielo stanotte sarà terso e le luci della città non basteranno ad offuscarlo.

Con gli occhi rivolti ad un mio intimo cielo, seguo presenze care che vanno e tornano, in rotte d’estate. Ciascuno ha una traiettoria, ciascuno percorre la stessa volta celeste, tutti c’incrociamo, pensandoci, nei vincoli d’una nostra gravità. Le libertà sono questo rammentarsi del limite, nel percorrere strade nuove sapendo che ci sono nostre armoniose scie che portano dall’uno all’altro lato del nostro cielo. E così, è bello pensare in queste notti, che per la scia di luce, e l’attenzione partecipe, i desideri s’avverino.

Il bagliore delle Perseidi nella notte, cercato, imprevisto, ed atteso, val più d’ogni fuoco d’artificio destinato a riempire gli occhi di luce e la bocca di meraviglia, ma a spegnersi nella meccanicità d’un fatto previsto. Stanotte, invece, guardando il cielo, gli occhi saranno pieni d’attesa e di buio, in una notte magica di desideri di cui conosciamo già la forma perché sono in noi da molto, prima d’essere pensati.

I nostri desideri siamo noi. Loro c’interpretano, così domestici nel loro ripetersi, così tenuti al riparo dalle paure che, a ben vedere, li motivano, così lasciati fluttuare nel cielo perché siano silenziosi di sorridenti segreti. Se ci soffermassimo, oltre il nostro ridiventare bambini, troveremmo in questi pensieri senza parole, il riassunto del nostro vivere: le gioie che non si dicono perché non svaniscano, le presenze su cui contiamo. Non è questa la magia del sapere chi si è ? Per una notte siamo più vicini a noi, a ciò che davvero vorremmo essere.

Buoni desideri per voi, che amate la meraviglia ed alzate gli occhi al cielo. 

 

presenze

Mio zio aveva un nome strano, molto bello e poco adatto a lui: Gelsomino. Non era dolce, solo silenzioso e per conto suo. Mia madre sottovoce diceva che era “un salvadego”. Compariva in casa verso fine ottobre, dopo la partenza di mia zia Adele.  Non si amavano, loro, anzi si evitavano, ma entrambi “amavano” noi. Adele veniva con le figlie, che restavano poco, al contrario della madre. Peccato perchè erano divertenti, grandi, in attesa di trovare mariti diversi da quelli che avevano, con me giocavano e cantavano. Anche i loro nomi erano finalmente normali: Lina e Gabriella. Ben strana questa storia dei nomi in famiglia, queste cugine erano tra le poche dicibili, le altre si chiamavano Teonilda, Irlanda che aveva sposato Italo, Pulcheria, ida, Oreste e via andare. Una rassegna dell’ottocento trasfusa per chissà quali rivoli nelle nostre famiglie collegate da almeno 300 anni di presenza nello stesso posto. Zia Adele, quando era misericordiosa, stazionava per un paio di mesi, da fine agosto fino all’arrivo di Gelsomino, con uno scambio consegne, utile alla disperazione di mia madre. Zia Adele non si dava ragione del molto perduto e cercava le tracce della famiglia sciamata all’estero, trovava tovagliati, mobili, i resti degli arredi dissipati. Quindi aveva una attività programmata di incontri, ricerche, ricordi patrimoniali che si spingeva sino a chiedere le “onoranze” del raccolto ai cugini che coltivavano i terreni di famiglia. Molto diverso, lo zio Gelsomino, che non si capiva cosa facesse. Si alzava al mattino presto e dopo colazione, spariva, credo stazionasse all’osteria o nelle piazze vicine, combinando affari complicati per le nostre teste semplici. Tornava a pranzo, si sedeva e in silenzio mangiava con il cappello in testa, altra gioia di mia madre, per poi uscire fino alla cena. Il piacere reciproco durava fino a dicembre, poi com’era arrivato, in silenzio andava, immerso nei suoi misteri. Mia madre era finalmente tranquilla, disinfettava i pavimenti con la gommalacca e l’alcool, per eliminare gli animaletti dell’autunno, addobbava la casa. Una breve pausa e a natale, con i loro nomi strani, le cugine e zie sarebbero passate a far gli auguri.

Non Gelsomino, nè Adele che, dopo aver svernato in riviera oppure sui colli, sarebbero tornati l’anno successivo  sempre misteriosi, sempre uguali, con la forza dell’abitudine che si fa diritto.  

Finchè un giorno tutto s’è dissolto e mia madre ha sorriso.