Disperdo tracce profonde di me tra parole distratte, seguendo la teoria della noce: con delicatezza rompere il guscio, per avere il frutto pieno e non lasciarsi prendere dalla fretta luminosa degli aggettivi. Gli aggettivi sono superficie, spesso neppure pelle o scorza. Mascherano assieme alle iperboli, eppure a leggere con attenzione, sono rivelatori, come i simboli aspersi. In uno specchio si guarda oltre l’apparenza, per avere il pensiero dell’immagine. Spesso la presunzione d’essere capito prescinde dallo sforzo della semplificazione, come se mostrando segni della propria traccia interiore, altri possano seguire. Ma non è così, non scrivo una guida alpina: allo sperone prendere a ds. trecento mt. impervi, attenzione al canalone, roccia marcia e franosa, sulla sn. tratti attrezzati… e poi per facili roccette si arriva alla cima. Dissemino tracce, non traccio sentieri, mostro e nascondo, curioso d’essere svelato. In fondo non è questo il gioco sottile della comunicazione profonda: intuizione, lettura attenta, leggerezza apparente, scambio, fascino e curiosità. Funziona a tratti e su questo albero, semplicemente aspetto che la primavera mi faccia agitare: qui è tutto appeso ad un filo, dipende. Mia nonna mi insegnava ad aprire le noci e pelare i gherigli e il frutto era arduo e dolce, non frettoloso. Da Lei ho imparato a non essere d’altri. Qualche volta me ne sono scordato.
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un cuore
Un cuore a lunghi passi per percorrere la città. Un cuore che non si stanchi, che alimenti gli occhi, un cuore da tenere in mano per far luce la sera, perchè sotto i portici ci sono angoli dove si dorme, anche ora che il freddo attanaglia. Un cuore da mettere nelle ginocchia di bimbo, che batta senza stanchezze, che viva di sonni danzanti. Un cuore che a mezzogiorno ha fame, che non si inquieta e che s’incazza se vede ingiustizie. Un cuore di notte, pozzo senza luce che si tasta per sentire che c’è. Un cuore che è d’inverno, d’estate e primavera, d’autunno mai. Un cuore, che serva insomma.
nausea
E‘ un post lungo, per me fastidioso anche da scrivere, figurarsi a leggerlo; prendetelo come sfogo, non ci sono sempre cose carine in circolazione.
C’é un fastidio che sfocia in nausea e fa rifiutare più persone del dovuto: per estensione si conclude che tutti sono uguali. E i volti, gli occhi, i pensieri intuiti dietro i sorrisi fanno desiderare la solitudine, il contatto selezionato per non sentire più male. E’ un poco da codardi restringere il campo, far finta di non sentire, tanto in profondità comunque lo annusiamo questo petrolio che sporca e non se va dalle mani quando si tocca. Spiegherò cosa ha mosso tutto questo e senza speranza di mutamento. Mi basta solo che riemerga la percezione del dolore muto, dell’ingiustizia che subisce chi viene manipolato. Faccio fatica a scrivere di queste sensazioni, non sono episodi, fatti di una sera, sono sentimenti vilipesi che inzuppano tutto. Vorrei avere il dono di sintetizzare ed invece parlo dell’effetto non della causa. Per lavoro conosco uomini e donne, ma soprattutto uomini che vivono all’estero. Alcuni hanno fatto fortuna, altri vorrebbero farla subito, adesso. Gli italiani si ritrovano nei circoli, invitano chi viene dall’Italia, parlano. Ecco due brani di discorso:
“Sono arrivato anni fa, nei momenti buoni ed era diverso. Si facevano soldi con perline e specchietti. Eravamo parecchi, molti sono qui ancora. E dove vanno? questo è un paese dove chi ha testa fa fortuna. Tra noi ci trovavamo in casa, ma soprattutto in un posto nostro.Mica come adesso che si viene il venerdì al ristorante per cantare sole mio. C’era una villa – l’avevamo in concessione – dove quasi ogni sera c’erano feste. No, non era un bordello, non potevano entrare tutti. Era una specie di privè, per noi e per i nostri ospiti. C’era il bar, un ristorantino, le saune, le stanze riservate, le camere. Si poteva usare come foresteria, ma solo per noi. Ha capito?
…
Ogni sera c’erano feste, le ragazzine arrivavano, si rideva, si parlava. Non capivano un cazzo, non parlavano italiano, ma imparavano presto. Erano infagottate dapprincipio,nei loro maglioni fatti in casa, con i jeans da pochi soldi, le labbra senza trucco e le ascelle pelose. Sapevano di sapone da bucato. Dopo 15 giorni ti accoglievano già nude, sorridenti, depilate. Parlavano, dicevano qualcosa e ridevano. Mica si scopava e basta, si mangiava, si beveva, c’era la musica. Si faceva all’amore. Qui si dice sempre fare all’amore, scopare no, è da puttana, le ragazze non vogliono sentirlo.
Una volta ho portato due siciliani, dovevano aprire una fabbrica di dolci, uno si è innamorato di una ragazza, alla fine se l’è portata via. In Sicilia. E la fabbrica di dolci non l’ha fatta più.
Ad un certo pnto hanno ritirato la concessione, invidie verso di noi. Abbiamo dovuto chiudere il circolo e adesso il venerdì sera siamo qua. Poche feste e o sole mio.
Ambasciatore, ci dà una mano,se presentiamo una petizione? Come per cosa? Lei non ha sentito vero? E’ un circolo, una cosa per noi italiani. ”
Dopo mezz’ora la stessa voce:
“Domani sera alle 18, venite tutti. Anche voi due che non venite mai, l’abbiamo spostata apposta perchè alle 19 ci sono le partite su sky. Viene anche lei? è qua domani sera? E’ la messa per noi italiani, anche per gli altri naturalmente, ma in italiano. Venite mi raccomando, qui in chiesa ci sono solo gli uomini.”
Non ho mai avuto voglia di ascoltare questi racconti, nè di guardare queste facce. Ma non mi basta più dare del lei, tenere le distanze, dissentire. Anche se è per lavoro, anche se non è dappertutto così, non ho più voglia.
liquido
E’ impressionante la quantita’ di liquidi che escono dal naso durante questo raffreddore: credo di essere un uomo liquido.
parole foglie
Parole foglie, ora mutano gradevolmente. Chi ci legge stagioni pregresse, chi individua una persistenza nonostante, chi trova ragioni di caducità seguite da rinascite. Sotto altre forme riemergono articolazioni arcaiche, parlava il caldeo nella stagione vicina alle piogge incollando suoni su pulsioni eguali. I sentimenti sono gli stessi da qualche decina di migliaia d’anni, solo le regole mutano e ci vestono. La parola è nuda come le foglie, ma a noi, che vibriamo di paura per un terremoto, mentre la terra trema di continuo, cosa interessa che sia meno che attuale. L’amore che aspetta all’angolo stasera, è il futuro, il per sempre alla portata, che si sporca se, appena appena, la verità d’un pensiero viene lasciata correre verso il desiderio. Parole foglie con bisogno di vento in allegria di mulinelli. Le luci gialle, che ci fanno compagnia, guardano, ma guardano per non vedere, per non sentire il freddo che ancora si fa quatto. Il freddo che è assenza d’amore, che è solitudine rappresa, che è abitudine insensata. Al dio dell’autunno possiamo chiedere che la primavera ci redima, che i sogni dell’estate conservino calore, gli possiamo chiedere verità pazienti. Al dio dell’autunno possiamo raccontare ciò che non è sperando in un abbraccio. Comprensivo e caldo.
Solo l’amore è per sempre, non le stagioni.
musica maestro
Un tempo giocavo a bridge e mi piaceva. Il legame tra la licitazione e il risultato era un gioco di intelligenza, di attesa, alla fine emergeva lo scostamento e si pagava. Anche adesso sento dichiarazioni nette, anch’io ne faccio, mi metto da una parte, escludo alternative, accetto il rischio dell’errore. Però rispetto alle geometrie di un tempo, alle prese di posizione ideologiche preferisco sapere dove sono, come mi muovo, seguire una traccia, un tom tom interiore. Non escludo la sofferenza, cerco di darle un senso come alla felicità. E’ strano dare un senso a cose prive di continuità, perchè non si soffre, nè si è felici per sempre, ma per qualcosa di contingente che poi lascia una scia lunga nel tempo. Minnie dice che a parlare di sentimenti ci sono un sacco di persone, mentre a parlare di problemi dell’umanità si resta in due gatti. E’ vero, forse dipende dal fatto che il mondo, con la caduta delle ideologie, si è allontanato, sterilizzato di sentimenti. Ora non si lotterebbe e soffrirebbe per il Viet Nam e un disastro che non tocchi l’Italia, diventa più notizia che orrore, Ne parlava Emma della sofferenza silente e domestica sotto il cielo. Stento però a credere che questo ottundimento, sia definitivo. Lo dico da bradipo sentimentale e non solo per speranza, ma per convinzione che il personale e il collettivo si sovrappongano quando c’è necessità di cambiamento. Oggi questa necessità sembra passata sullo sfondo, divenuta non urgente e quotidiana. In questa stagione, mi sembra strano proclamare in modo assoluto: io sarò così, farò quest’altro, anzichè dire, cercherò di essere, proverò a fare sul serio. Il rigore interiore non deve per forza trasparire, anzi quando si sposa alla leggerezza diventa ballo della vita: passi certi, fantasia, divertimento, scioltezza progressiva, con la musica che suona dentro.
Ecco, vorrei che senza imporla, la mia musica risuonasse, contando sulla curiosità e sulla forza di convinzione.
equinozio
Nell’ingresso due dirigenti folletto, stile casalingasuasion, parlano di problemi: le diffidenze nel porta a porta, i margini ridotti, gli obbiettivi troppo alti. Non si scopa più come un tempo, difficile la vita, prendiamoci un secondo macchiatone. Anche la brioche? Si anche…
Stamattina ho pensieri spocchiosetti, da sinistra impegnata con tutto il peso del mondo sulle spalle. Alitalia, crisi sub prime, equilibri in medio oriente, l’azienda che dovrei dirigere; ecchè sarà mai questo personale che diventa politico? Ed invece sbaglio, perchè nei flussi che percorrono il nostro sistema simpatico, il quotidiano sfavilla e rende fioco tutto il resto. Secondo me i neuroni sono conservativi e tendenzialmente di destra, al contrario degli ormoni sempre impegnati a tumultuare e vociare in scambi osmotici. Divago come il dottore di Pasternak, ma la Lehman è oggi importante se ho soldi investiti, il medio oriente se cresce il prezzo della benzina, la cina se avvelena con i propri prodotti una fetta di mondo. Il quotidiano converge e si piega per rendere concreti i problemi e la notizia resta tale finchè non tocca personalmente, altrimenti flatus vocis. Eppure, in questo preannuncio di nebbia, di profumi zuccherosi da sagre paesane, il pensiero si accoccola gattoso sulla medietà berlusconiana: tutto domestico, come i voli alitalia, come i pensieri folletto, come gli amori da retrobottega. Basta voli alti ed ambizioni che non siano gessatini, tacco 10, bocche rosse a cui togliere il rossetto prima dell’uso, basta parlar di politica: qui si vive e non ci si fanno seghe sul mondo e sui posteri. Così disse un genio parlamentare: ma chi saranno poi questi posteri, che neppure votano. Ed io mi incazzai, senza capire di questa realtà che mi manca e che mi fa animale fuori tempo.
Buon equinozio agli scontenti e ai coraggiosi.
alla prossima
Il convegno è andato bene, la sala era piena, le autorità partecipi, molte televisioni e interviste, discorsi densi, sollecitazioni. Al ministro era chiaro che gli avrebbero impedito di trasvolare, non è venuto, nessuno si è lamentato. Pochi gli sfaccendati disattenti, quelli che non hanno mai ascoltato una parola in vita loro. Tra questi, quelli che han mangiato sempre bene e si sono tarati per vincere una poltrona, poi il nulla, ma non era il loro convegno, non hanno disturbato. Gli altri, erano tanti, contenti e sorpresi.
Per chi conosce i propri limiti, le possibilità erano superiori e non accontentarsi fa parte dello stile e sostanza di vita. Due piani quindi: la soddisfazione esterna e la voglia di far meglio e di più. C’è movimento in tutto questo, è la positività vera della fatica, che la relativizza e ne fa desiderare altra, non per stordirsi ma per fare.
Alla prossima.
fallimenti
Han morso senza tregua i fallimenti e ora, inattesi, emergono riscontri: qui una crescita, lì una fermata salutare, appena oltre una cicatrice, un tatuaggio che sorride e duole un pò.
Che vuole Signora mia, il tempo incerto, l’età, la testa, tutto prende altro… colore, significato, senso? No, è la vita, Signora mia, solo la vita.
I fallimenti sono lucertole leggere, con code fragili da prendere, perfette per stare al sole. Ed entrambi costruiti per correre sui sassi, con bocche senza denti.
Ho un dolore che fa compagnia, ormai è di famiglia:se non lo sento qualcosa non mi torna.
Capirlo prima che una decisione è un passo avanti e che la rabbia sfuma presto, ho passato troppo tempo ad infilare perle per giudici severi che han chiesto sempre il conto. Ma ora si stancano e scrollando il capo, se ne vanno: ho deluso molto e non mi importa niente.
Rido Signora mia, rido perchè la posta manda lettere fasulle, qualcuno mi saluta, qualcun altro saccheggia il conto, ma cercano tutti nel posto sbagliato. Per questo rido Signora mia, perchè l’indirizzo non è giusto.
Rimproverano fallimenti, ti raccontano i tuoi anni e ricordano al tuo posto: niente è inavvertito. Ma demolendo ciò che resta, non guardano davvero e l’importante non nascosto, nessuno lo raccoglie. Creditori stupidi, accaniti su miserie.
M’hanno raccontato il passato e il futuro, han detto che il bilancio è ormai fallito. Non sanno Signora mia, che ho una carta per sbaragliarli tutti. Solo che non m’importa: ho imparato e non mi pesa ora. Ascoltando i miei avvocati ho buttato tempo e amori, frequentato luoghi comuni e gente senza senso. Solo quando ho giocato e perso mi sono perdonato, ho fallito e mi sono perdonato.
presenze
Mio zio aveva un nome strano, molto bello e poco adatto a lui: Gelsomino. Non era dolce, solo silenzioso e per conto suo. Mia madre sottovoce diceva che era “un salvadego”. Compariva in casa verso fine ottobre, dopo la partenza di mia zia Adele. Non si amavano, loro, anzi si evitavano, ma entrambi “amavano” noi. Adele veniva con le figlie, che restavano poco, al contrario della madre. Peccato perchè erano divertenti, grandi, in attesa di trovare mariti diversi da quelli che avevano, con me giocavano e cantavano. Anche i loro nomi erano finalmente normali: Lina e Gabriella. Ben strana questa storia dei nomi in famiglia, queste cugine erano tra le poche dicibili, le altre si chiamavano Teonilda, Irlanda che aveva sposato Italo, Pulcheria, ida, Oreste e via andare. Una rassegna dell’ottocento trasfusa per chissà quali rivoli nelle nostre famiglie collegate da almeno 300 anni di presenza nello stesso posto. Zia Adele, quando era misericordiosa, stazionava per un paio di mesi, da fine agosto fino all’arrivo di Gelsomino, con uno scambio consegne, utile alla disperazione di mia madre. Zia Adele non si dava ragione del molto perduto e cercava le tracce della famiglia sciamata all’estero, trovava tovagliati, mobili, i resti degli arredi dissipati. Quindi aveva una attività programmata di incontri, ricerche, ricordi patrimoniali che si spingeva sino a chiedere le “onoranze” del raccolto ai cugini che coltivavano i terreni di famiglia. Molto diverso, lo zio Gelsomino, che non si capiva cosa facesse. Si alzava al mattino presto e dopo colazione, spariva, credo stazionasse all’osteria o nelle piazze vicine, combinando affari complicati per le nostre teste semplici. Tornava a pranzo, si sedeva e in silenzio mangiava con il cappello in testa, altra gioia di mia madre, per poi uscire fino alla cena. Il piacere reciproco durava fino a dicembre, poi com’era arrivato, in silenzio andava, immerso nei suoi misteri. Mia madre era finalmente tranquilla, disinfettava i pavimenti con la gommalacca e l’alcool, per eliminare gli animaletti dell’autunno, addobbava la casa. Una breve pausa e a natale, con i loro nomi strani, le cugine e zie sarebbero passate a far gli auguri.
Non Gelsomino, nè Adele che, dopo aver svernato in riviera oppure sui colli, sarebbero tornati l’anno successivo sempre misteriosi, sempre uguali, con la forza dell’abitudine che si fa diritto.
Finchè un giorno tutto s’è dissolto e mia madre ha sorriso.