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Non esiste un diritto alla felicità. E’ una panzana inventata dalla mia generazione che considerava il mondo a disposizione dell’uomo. Che confondeva felicità con piacere, stato con sensazione. E per condividere e rassicurare se stessa, questa generazione l’ha raccontato ai propri figli, ne ha fatto oggetto di crescita economica, ha assicurato che si può essere realizzati e felici.

Qualcuno dirà: ma esiste nella costituzione degli Stati Uniti il diritto alla felicità, e pure nel Butan c’è un indice che misura la crescita della felicità accanto a quella dell’economia. Ma vi pare siano particolarmente felici negli Stati Uniti, oppure nel Butan?

Esiste la fatica della conquista della felicità, le condizioni che la possono rendere vera. Per poco. Quanto basta a motivare lo sforzo e riprovarci.Esiste un bisogno di felicità, un percorso tendenziale, a volte tangente, una spinta a ripetere qualcosa che affonda nel bujo del nostro ricordo. Ed è rosso, caldo, avvolgente, ed immoto, eppure, al contempo, è dinamico, muta di luce e colore, prova brividi e sente. Sente tanto intensamente da perdere nozione del tempo. Ma costa fatica anche se è gratis, è lavoro su di sé senza risultati apparenti, che a volte sfocia, senza motivo apparente, nella pienezza. Non ha a che fare con l’amore, può accompagnarlo, ma è disgiunto. Neppure con il piacere c’entra molto, a volte coincide, ma è un caso.

Non c’è un diritto e saperlo costringe a scegliere, a rimboccarsi le maniche, predisporsi. E soprattutto ritagliare la felicità alla propria misura, cercarla in ciò che si avvicina a noi. La felicità, come il dolore, è un percorso alla conoscenza di sé, per questo non è un diritto ed è un lavoro che non finisce.

p.s. Buon compleanno Bob, abbiamo idee convergenti sulla felicità.