giornali

Da anni, in edicola, compro solo giornali nazionali, il quotidiano locale  lo leggo al bar, di fretta con il caffè e quello che sbircia da dietro. Il poco che vedo mi basta, ormai sono uno specialista: trattengo poco perché c’è poco da trattenere. I giornali locali sono troppo ricchi di fatti, hanno titoli costantemente costantemente fragorosi che alla fine lasciano vuoti. A parte i necrologi, in realtà non c’è nessuna notizia che resti. E capisco la fatica di riempire ogni giorno pagine di notizie, sapendo che quello che accade è rumore di fondo, importante per pochi, e soprattutto fatto di cose che la città già conosce.  Un compito eroico attrarre un’opinione distratta che s’occupa d’altro e sa che le decisioni vere vengono prese altrove, forse per questo sui titoli ci danno dentro con i titoli. Nelle città medie quelli che contano si conoscono tutti, e ben oltre le notizie che si leggono, ciò che accade, trabocca e serpeggia tra le piazze, nei caffè, sui sagrati delle chiese, luoghi ben più informati del giornale e che passano le informazioni travestite da domande: hai sentito che… ma è vero che…

Così alla fine il mestiere si piega a questo curiosare, alla chiacchiera, alle  infinite interviste e conferenze stampa che annunciano cose importanti, sì, ma a dimensione e memoria locale perché per i destini della nazione, qui, non c’è nessuno di davvero importante e se per caso c’è, vista l’aria, quasi sempre emigra.

Allora si compra, per leggerlo a casa, il giornale nazionale, dove il rumore della notizia è più rado, le sezioni quasi immutabili, ma dà più speranza del capire dove si è, cosa si decide davvero e poi fa più fino. Però mi capita di confrontare giornali di 4 e più anni fa e se non si legge la data, gli articoli sembrano scritti ieri. Credo dipenda dall’immutabilità dei protagonisti, ma anche i giornalisti non scherzano con le analisi ribollite, c’è un  déjà vu costante, un parlarsi che è autocitarsi, che seppellisce le 40 righe asciutte che vanno al cuore del problema. A chi scrive, piace scrivere e scriversi e non a caso molti giornalisti scrivono libri che sono la prosecuzione dell’articolo con altri mezzi. Insomma anche il giornale nazionale ha un conformarsi all’ambiente, ma più quieto e senza il botto costante del giornale locale. Naturalmente ci sono le eccezioni e ci sono giornali nazionali che scrivono come un giornaletto locale e pensano di essere il grande quotidiano. Lasciamoglielo pensare, è sempre accaduto.

Nel giornale che abbiamo comprato, possiamo cercare a lungo, ma a parte qualche rara notizia che cambia qualche vita importante, oppure ne cambia molte, le parti più movimentate sono quelle sportive. Diciamocelo, la politica annoia, o è un bollettino quotidiano di sberle oppure un parlarsi tra alieni. Restano le notizie dal mondo, che però dipende sempre meno dalle decisioni nazionali e la parte culturale, quella che un tempo era la terza pagina e adesso è la 32 ? la 46?, boh. Quest’ultima spesso è fatta bene, non manca mai qualcosa di curioso che solletica verso altro: siamo o non siamo un popolo di poeti e scienziati?

Così, per non pochi penso, ma non ne ho certezza, il giornale diventa altro, apre e chiude le teste in modo diverso da come si pensa dovrebbe. Ovvero con la cultura  apre la testa, il pensare in grande, ma subito preso da spavento di quanto fatto, si affretta a chiudere il lettore nella noia della ripetitività degli accadimenti non disastrosi. Cosicché subentra una presbiopia che falsa ogni prospettiva, da un lato sembra che tutto ciò che conta avvenga altrove, dall’altro si vorrebbe capire e partecipare a ciò che è più vicino.

Far capire e partecipare dovrebbe essere lo scopo  di chi scrive, e se così non è nasce un senso di straniamento: ma dove siamo davvero nati se non parlano mai a noi?