piccole felicità

Trieste ti prende le braccia, da dietro come in gioco di ragazzi, e ti taglia l’urgenza del fare. Ti prende il cuore, non ascolta le tante inutilità che vorresti dire, e ride, mentre risale alla testa e ti muta i programmi. In cambio t’investe di sole, di vento, di profumo di cipresso e di platano potato, di erba alla soglia del mare, di terra, di falesia, di sasso e ancora non finisce di stupirti. Solo i pesci guardano muti tanta profusione insensata che ancora non si ferma e posa.

Dal molo Audace si vede intera piazza Unità, un anfiteatro di palazzi che si fida del mare, che accoglie chi arriva. Dovrebbero attraccare qui le navi, come un tempo, ma non quei mostri multipiano che in ogni porto abbandonano in città, l’equivalente degli abitanti di un paese. No, dovrebbero attraccare  i piroscafi, le navi svelte di una volta, quelle piene di speranza, e non di noia, e fargli scendere piano i passeggeri per dare, intera, la sensazione del suolo che si ferma. Fargli sentire le gambe che hanno voglia di correre, e spingerli a lasciar liberi gli occhi, di scorrere sui marmi e sulle pietre della riva, perché ognuno abbia la sua personale meraviglia. E poi fare una corsa dal molo fino a piazza Unità, senza sentirsi ridicoli, ma felici del sole, di tanto essere uomini in sé, in questo luogo, che è qui e altrove. Come in ogni mare, perché senza essere pesci è il mare che ci unisce. 

Cammino. Lastricato, palazzi, tavolini e caffè all’aperto. Respiro. Cammino.

Respiro soprattutto, il savor di salso, di casa, di buono, di attesa, di pomeriggio, che si stende pigro e promette. Sul mare, tra la marittima e il molo, i canottieri vogano veloci e ridono di mille sfide.  Dall’altra parte, il porto vecchio. Sorgeranno nuovi quartieri, abitazioni, grandi negozi, una nuova città davanti al mare. Smonteranno e demoliranno tutto il possibile, ma speriamo lascino una gru di banchina, una di quelle alte, che finiscono in un becco e sembrano un grande uccello posato tra le navi. Se non per altro dovrebbero lasciarla per ricordare il lavoro, la testa dei costruttori di un tempo, il passo ondeggiante dei facchini, l’odore lontano della merce che arrivava.

Magari davvero la lasceranno davvero. Il sole illumina il porto, le fabbriche, le case, ma soprattutto il mare e il cuore si apre e mi commuovo. E penso alla libertà, al senso del tempo, a ciò che mi e’ stato dato e che spesso mi sembra un fardello. E improvvisamente sono felice di essere qui, in questo tempo.